18 dicembre: 4a domenica di Avvento

La Chiesa, attraverso la predicazione e la liturgia, continua a ripetere all’uomo che la salvezza vera e definitiva è un dono che Dio stesso ci porta venendo fra noi.
Al centro della liturgia di questa domenica sta la rivelazione di questo segreto, di questo mistero tenuto nascosto per secoli: lo svelamento, cioè, del piano salvifico che Dio ha preparato ed attuato per nostro amore. Questo disegno di salvezza ha una sua storia ed ha dei segni rivelatori.
Il profeta annuncia un segno che può essere riconosciuto e accolto solo nella povertà e nella umiltà della fede. Parla della nascita miracolosa dell’Emmanuele figlio di una vergine, segno miracoloso concesso da Dio al piccolo «resto» dei credenti che, per la fede in lui, nonostante gli sforzi dei nemici, saranno liberati (prima lettura). Sarà questo il nuovo popolo costituito nell’ordine della fede e non in forza di privilegi nazionalistici o di casta.

Figlio di Davide, Figlio di Dio
La storia della salvezza ha un suo preciso piano di attuazione. Concepito nella mente di Dio prima dell’inizio del tempo, fu preannunciato ai progenitori all’indomani della caduta, e messo in opera con la scelta di un uomo (Abramo) e di un popolo (il popolo eletto); quando giunse la pienezza dei tempi fu attuato con la venuta di Cristo, il figlio di Davide. Dire che Cristo è figlio di Davide significa riconoscere la sua appartenenza ad Israele; ricordare una realtà che è segnata dalla sconfitta, come lo fu la storia della dinastia davidica. Dire che è Figlio di Dio, implica che la storia della salvezza ha ora il suo «Messia» capace di aprire questa storia a «tutte le genti» (seconda lettura). Credere oggi al figlio di Davide costituito Figlio di Dio significa accettare che la storia non è estranea alla costruzione della Chiesa, anzi è il linguaggio che Dio ha voluto usare per comunicare con gli uomini: egli si serve degli avvenimenti dell’uomo anche quando sembrano strumenti indocili, come Davide ed i suoi successori, per la realizzazione del suo piano. Significa pure credere che la missione del cristiano ha un volto profondamente umano, non è disincarnata, ma intessuta di cultura e di storia: proprio perché Dio è sceso ad incontrare l’uomo nella sua carne, sulla sua terra.

Un Dio che chiede
In questo grande piano, la liturgia di oggi ricorda la profezia di Isaia: i primi elementi della attuazione della promessa sono l’obbedienza di Giuseppe, il « sì » di Maria e l’incarnazione dei Figlio di Dio (vangelo). Si tratta di un piano di bontà nel quale l’iniziativa è sempre di Dio.
– E’ il Figlio di Dio che viene (non un uomo qualsiasi).
– Viene da una Vergine, senza il concorso di un uomo.
– E’ lui che vuole essere con noi: Dio con noi.
Il piano di Dio s’incontra con la volontà e la collaborazione umana: Giuseppe e Maria.
Maria, «eccelsa Figlia di Sion» (LG 55), è il fiore di tutta l’umanità; Giuseppe è l’uomo «giusto» (Mt 1,19), non di quella giustizia legale che vuol mettere la legge dalla sua parte col ripudiare la fidanzata, e nemmeno di quella giustizia che ha paura dei pregiudizi del prossimo, ma di quella giustizia religiosa che gli vieta di appropriarsi dei meriti di un’azione di Dio nella vita e nella vocazione di suo Figlio. Un angelo interviene per dirgli che Dio ha bisogno di lui: è vero che il concepimento è opera dello Spirito Santo, ma Giuseppe deve far entrare il bambino nella discendenza di Davide.

Un Dio degli uomini
Il segno dell’Emmanuele trova il suo perfetto compimento in Gesù Cristo, «sacramento dell’incontro tra Dio e l’uomo», la cui presenza nell’Eucaristia e nelle azioni liturgiche è il nuovo «segno» offerto a coloro che accettano di aver piena fiducia in Dio Padre. La salvezza però non dipende esclusivamente da una iniziativa sovrana di Dio, per cui all’uomo non rimarrebbe altro che attenderla passivamente: Dio non salva l’uomo senza la sua cooperazione. Dio rispetta l’uomo come ha rispettato la libertà di Maria e di Giuseppe, e nonostante ciò il suo dono è sempre totale e continuamente rinnovato in ogni eucaristia in cui ci è «dato il pegno della vita eterna» (orazione dopo la comunione).
In Gesù è l’onnipotenza divina che si addossa le sofferenze di un mondo che si evolve e di uomini peccatori; è l’onnipotenza divina che in Gesù sana gli infermi e varca il confine della nostra morte. Il cristiano, pur cogliendo nella creazione il mistero del dolore e del male, scorge il mistero della potenza dell’amore: Dio si è lasciato così intimamente coinvolgere dalle nostre situazioni, da assumere tutta la debolezza che ci affligge.

Dio rivelò il suo amore per mezzo del Figlio

Dalla «Lettera a Diognèto»  (Cap. 8, 5 – 9, 6; Funk 1, 325-327)
Nessun uomo in verità ha mai visto Dio né lo ha fatto conoscere, ma egli stesso si è rivelato. E si è rivelato nella fede, alla quale soltanto è concesso di vedere Dio. Infatti Dio, Signore e Creatore dell’universo, colui che ha dato origine ad ogni cosa e tutto ha disposto secondo un ordine, non solo ama gli uomini, ma è anche longanime. Ed egli fu sempre così, lo è ancora e lo sarà: amorevole, buono, tollerante, fedele; lui solo è davvero buono. E avendo egli concepito nel cuore un disegno grande e ineffabile, lo comunica al solo suo Figlio.
Per tutto il tempo dunque in cui conservava e custodiva nel mistero il suo piano sapiente, sembrava che ci trascurasse e non si desse pensiero di noi; ma quando per mezzo del suo Figlio prediletto rivelò e rese noto ciò che era stato preparato dall’inizio, tutto insieme egli ci offrì: godere dei suoi benefici e contemplarli e capirli. Chi di noi si sarebbe aspettati tutti questi favori?
Dopo aver tutto disposto dentro di sé assieme al Figlio, permise che noi fino al tempo anzidetto rimanessimo in balia d’istinti disordinati e fossimo trascinati fuori della retta via dai piaceri e dalle cupidigie, seguendo il nostro arbitrio. Certamente non si compiaceva dei nostri peccati, ma li sopportava; neppure poteva approvare quel tempo d’iniquità, ma preparava l’era attuale di giustizia, perché, riconoscendoci in quel tempo chiaramente indegni della vita a motivo delle nostre opere, ne diventassimo degni in forza della sua misericordia, e perché, dopo aver mostrato la nostra impossibilità di entrare con le nostre forze nel suo regno, ne diventassimo capaci per la sua potenza.
Quando poi giunse al colmo la nostra ingiustizia e fu ormai chiaro che le sovrastava, come mercede, solo la punizione e la morte, ed era arrivato il tempo prestabilito da Dio per rivelare il suo amore e la sua potenza (o immensa bontà e amore di Dio!), egli non ci prese in odio, né ci respinse, né si vendicò. Anzi ci sopportò con pazienza. Nella sua misericordia prese sopra di sé i nostri peccati. Diede spontaneamente il suo Figlio come prezzo del nostro riscatto: il santo, per gli empi, l’innocente per i malvagi, il giusto per gli iniqui, l’incorruttibile per i corruttibili, l’immortale per i mortali. Che cosa avrebbe potuto cancellare le nostre colpe, se non la sua giustizia? Come avremmo potuto noi traviati ed empi ritrovare la giustizia se non nel Figlio unico di Dio?
O dolce scambio, o ineffabile creazione, o imprevedibile ricchezza di benefici: l’ingiustizia di molti veniva perdonata per un solo giusto e la giustizia di uno solo toglieva l’empietà di molti!

Dal sito: www.maranatha.it