Venerabile Frate Ave Maria

Eremita cieco della Divina Provvidenza, da Pogli di Ortovero (Savona), morto a Voghera (Pavia) il 21 gennaio 1964, a 63 anni di età, 42 di Professione e 52 di cecità

Per avvicinare Frate Ave Maria attraverso la lettura dei suoi scritti, è utile una previa conoscenza dei tratti essenziali della sua vita. In essa il Signore ha pronunciato parole semplici e sorprendenti, esigenti e consolanti, a volte severe ma sempre apportatrici di elevazione spirituale. Poi, sarà Frate Ave Maria stesso a raccontarci di sé. Le sue “Lettere dall’eremo”, una selezione di 70 lettere disposte in ordine cronologico, contengono abbondanti notizie sia della sua vicenda umana (avvenimenti, luoghi, persone, occupazioni, salute, carattere, problemi, echi di storia della società, ecc.) e sia della sua vicenda spirituale. Entrambe affascinanti. Egli scrive sempre “ex abundantia cordis” di quel che vive; comunica con semplicità, quasi con ingenuità, sia le piccole notizie di cronaca quotidiana e sia i suoi pensieri e affetti più intimi. Tutto gli era argomento di lode alla Divina Provvidenza.

Prima di “quel giorno”: 1 novembre 1912
 Cesare Pisano – questo il suo nome e cognome – nasce a Pogli di Ortovero, piccolo paese nella piana di Albenga (Savona), il 24 febbraio 1900. Viene battezzato il 3 marzo successivo.

 E’ il primo di cinque figli, quattro maschi e una femmina, di una famiglia cristiana robusta e lavoratrice. Il papà, Cesare, panettiere, vive per molto tempo lontano dal paese, emigrato in Sud America – lo seguirà poi anche il fratello Adolfo – per dare condizioni più agiate alla famiglia. L’assenza del padre dalla famiglia si fa sentire. Frate Ave Maria più volte lo inviterà a tornare a casa, definitivamente. Gli scrive nel 1927: “Oh, caro papà, tornate in famiglia e non allontanatevi più, e ditelo ai fratelli pure, che val più la pace che si respira nel seno di una famiglia cristiana che tutte le ricchezze del mondo”.

 La conduzione della famiglia gravita così tutta su mamma Serafina: donna forte, intelligente e sensibile, ella si prende cura della famiglia con tanti sacrifici.

 Non si hanno molte notizie di quei primi anni di vita di Cesare Pisano. Nelle lettere troviamo però echi di quella sobria e santa quotidianità su cui si è venuta intessendo la sua personalità: famiglia, scuola, chiesa, gioco, lavoro.

 Cesare cresce buono, vigoroso e vivace; fa il chierichetto. E’ affezionato al parroco Don Giovanni Favara, da tutti stimato per le doti sacerdotali. A nove anni fa la prima Comunione e, subito dopo, il 12 luglio 1909, riceve il sacramento della Cresima. E’ un ragazzo sveglio di intelligenza e impegnato nella scuola che egli frequenta prima in paese e poi all’Istituto S. Cuore di Albenga. All’inizio delle scuole tecniche si merita una borsa di studio. Insomma, è un ragazzo che promette bene. Fino ai 12 anni la sua vita è uguale a quella di tanti suoi coetanei.

 Il I di novembre del 1912 avviene il fatto che condizionerà tutta la sua vita. Quando Frate Ave Maria parlerà di sè, fa cominciare di fatto, la sua vita proprio da “quel giorno”: un compagno di giochi, Bartolomeo Vignola (“Tumelin”), con un colpo di fucile, creduto scarico, lo rese irreparabilmente cieco.

 E’ il giorno dei Santi ed il nonno invita Cesare a recarsi in sua compagnia alla chiesa e poi al cimitero per ricordare i morti. Ma il ragazzo preferisce andare a giocare nel vicino bosco assieme al suo amico “Tumelin”. In una stalla aperta vi trovano un fucile. Curiosità, avventura e ingenuità inventano un nuovo divertimento: si scambiano allegramente il fucile e i ruoli del gioco. “Spara, spara pure, tanto io non ho paura!”, grida Cesare allargando le braccia pronto a “fare il morto”. E Bartolomeo preme il grilletto. “Mamma…!”: e il gioco diventa tragedia.

 E’ facile capire la reazione che fece seguito a quei primi lunghi, interminabili giorni e mesi di cure e tentativi, inutili, di ridare la luce agli occhi di Cesare irrimediabilmente sfondati. “Fu mio fratello a dirmi che non avevo più l’occhio. Stetti un mese all’ospedale. Il dottore, a mio padre, accorso dall’America, che gli chiedeva notizie, rispose che ci voleva un miracolo. Lo disse in mia presenza: ero disperato… Vi ricordate – scrive alla mamma, quarant’anni dopo – quando all’ospedale di Porto Maurizio non sapevo ancora di essere cieco e singhiozzando vi dicevo di dire al professore di fare presto a sfasciarmi gli occhi perché ero stanco di stare al buio?”. L’affetto con il quale Cesare era circondato non poteva colmare l’improvvisa desolante solitudine. Crollava un passato e ancor più, crollava, così egli era convinto, il suo futuro. “Con la vista, poco a poco, perdetti anche la pace e la fede. Credetti questo mondo in balia di una grande mente capricciosa, crudele, ingiusta”.

Cieco!
A 13 anni, l’8 maggio 1913, Cesare si ritrova all’Istituto per ciechi “Davide Chiossone” di Genova, per tentare di prepararsi al suo domani di vita tanto insicuro. Nell’Istituto incontra altri giovani e adulti segnati come lui dalla cecità e impegnati in una possibile ripresa umana. Per Cesare sono solo tempi di crisi, di poca voglia di vivere, di desolazione spinta fino alla disperazione. A scuola non si applica come potrebbe; comunque, apprende il metodo di scrittura e lettura per ciechi “Braille”; impara un po’ di musica con risultati mediocri; è avviato a qualche piccolo mestiere, come impagliare sedie, confezionare corone, ecc. Ma l’adolescente disorientato trascina svogliato i suoi giorni. Diventa insofferente di tutto. Le buone capacità umane di Cesare sono come paralizzate dalla tristezza per l’irreparabile inferiorità e in lui nasce la ribellione contro la “sorte” cattiva di cui si sente ingiustamente vittima.

 Cupi pensieri demoliscono la fiducia in Dio, precedentemente coltivata con semplicità. Cesare non prega più, non partecipa più alla Messa. Quasi con rancore per quanto gli è capitato, nega Dio. Sono i tempi del suo maggiore smarrimento spirituale. Così per quattro lunghi anni. A questo periodo Frate Ave Maria si riferisce quando umilmente confesserà più volte di essere stato grande peccatore. “La Divina Provvidenza mi sopportò misericordiosamente e a tempo opportuno mi toccò il cuore, il quale, da duro come un macigno, divenne tenero come il burro”. “Io quando ero tre volte cieco mi vergognavo fino all’avvilimento della mia cecità fisica e di quella intellettuale; ma non mi vergognavo di essere cieco moralmente, spiritualmente; ma quando Gesù mi folgorò con la sua Luce, con la sua verità, la sua grazia, la sua carità, allora dissi a Gesù e lo dissi con grande entusiasmo: ‘Gesù, Tu solo mi basti! Tu sei il mio vero bene!'”.

“Gesù mi folgorò”
Cosa avvenne in realtà? Cosa poté “cambiare le tenebre in luce”, come egli ripeterà innumerevoli volte? Difficile a dire. Certo il Signore lo visitò imprimendo nella sua mente e nel suo cuore la certezza interiore del suo amore, della sua Provvidenza. La sua Presenza lo accompagnerà per tutta la vita.

 Alcuni momenti e protagonisti umani della ‘folgorazione’ che rischiarò la vita di Cesare sono facilmente individuabili, perché è lui stesso a parlarne.

 Era già al quarto anno di cecità quando all’Istituto “Davide Chiossone” arrivò come addetta all’infermieria una Figlia della Carità, suor Teresa Chiapponi. Questa suora prese a ‘martellare’ – è di Frate Ave Maria la parola – quel giovane deluso e ribelle con premurosi gesti di carità e con povere ma potenti parole di fede. “Non ne hai abbastanza della cecità degli occhi – gli diceva suor Teresa – vuoi crescere cieco anche nell’anima?”. Con “i molti santi consigli di Suor Teresa e di altre persone, anime buone, che quali colpi d’assiduo martello sull’incudine, coperto di molta ruggine, riescono ancora a farlo divenire liscio e lucente… così, nonostante la mia ostinata accidia, il buon Dio e la Vergine Santissima si servirono della bocca e di cuori a loro votati per convertirmi da vaso d’uso infimo in vaso d’uso amorevole”.

 Ci fu un fatto che portò Cesare a ricomporre tanti pensieri e sentimenti, prima in conflitto, e a trarre nuova luce, nuova decisione, nuovo orientamento. Nella sua vita all’Istituto c’è un ‘prima’ e un ‘dopo’ questo fatto. Nel 1918 muore la nonna, tanto cara al giovane: questo evento provoca una ulteriore meditazione sulla vanità della vita e rende l’animo di Cesare più aperto e bramoso di una vita superiore, riscattata dalla morte e dal male.

 “Perché non preghi per la nonna cui hai voluto così bene?” – gli suggerisce suor Teresa. Cesare accetta e, dopo tanto tempo, si confessa, ritorna alla Comunione, prega. E’ il momento della Grazia. Una compagnia nuova – quella di Dio – dà senso e interesse ai suoi giorni desolati. Comincerà a pregare volentieri, insieme e da solo. Gode di stare con Dio. Da tanto tempo non godeva più di nulla. La sua vita risorge. Drammaticamente distaccato e disincantato d’ogni cosa, quel giovane avverte che “Dio è tutto”. “Fu appunto col togliermi ogni speranza di godere in questa vita presente che il buon Dio e la nostra Madre celeste mi obbligarono a sperare grandemente, unicamente, nei beni eterni, e mi diedero forza di operare in modo di meritarli”.

 Come affrontare una vita nel buio di ogni bene terreno, conservando quella luce e quella pace? Stare solo con Dio solo. Un giorno Cesare, con qualche imbarazzo, si confida con suor Teresa: aveva in mente l’idea di diventare frate o monaco, di consacrarsi a Dio. Quella buona suora non si meraviglia affatto, e lo aiuta a rendere concreta e realizzabile quella buona ispirazione. “Suor Teresa mi parlò di Don Orione in modo da farmi desiderare di conoscerlo, di udirlo, di parlargli, di rendergli note le mie miserie fisiche e morali, tutte, tutte, eppoi ascoltarlo ancora se mai avesse avuto una parola di consolazione, di conforto, di speranza anche per me”.

L’incontro decisivo con Don Orione
Don Luigi Orione è un sacerdote piemontese, molto noto e in fama di santità, fondatore di una Famiglia religiosa, la Piccola Opera della Divina Provvidenza. Suor Teresa pensa proprio a Don Orione perché conosce una comunità di suore Sacramentine cieche adoratrici da lui istituite, e sa dell’esistenza anche di un ramo di Eremiti. Forse c’è un posto pure per Cesare.

 E l’incontro tanto desiderato avviene. Ne seguono altri. Le parole di conforto di Don Orione sono appassionate e concrete, radicate in una illimitata fiducia nella Divina Provvidenza. “Questo poveretto – ricorda di sé Frate Ave Maria – fu da Don Orione spinto alla conquista delle ricchezze eterne, della vera luce, della sapienza divina che, lasciandolo disperato (graziosa disperazione), gli riempì il cuore di gioconda e luminosa speranza e certezza nella possibilità e facilità di conseguire anche lui la vera felicità nella vera vita immortale, a cui ogni cuore umano aspira e si sente attratto”.

 L’idea di Cesare di consacrarsi a Dio, diventa con l’aiuto di Don Orione decisione e progetto: entra nella sua Congregazione.  “Il 18 marzo 1920 (aveva 20 anni!) la Piccola Opera della Divina Provvidenza mi apriva la porta”. Accompagnato dal papà, raggiunge la ‘casa madre’ della Piccola Opera a Tortona. Don Orione non è presente quando egli giunge a Tortona, ma tutto parla di lui: i confratelli, gli ambienti, gli orari, le abitudini, gli esercizi di pietà. Sente che da tutti Don Orione è grandemente amato e seguito con la fiducia di chi sà di avere trovato una guida sicura, un padre dell’anima. Ricordando quel caldo clima formativo incontrato a Tortona, commenterà: “Tutto ciò agiva su mio spirito come un potente fuoco di carboni su un pezzetto di legno verde che in esso è gettato, che al principio suda, fa fumo, ma alla fine si converte anch’esso in fiamma”.

 Dopo qualche tempo, finalmente Don Orione arriva e l’incontro diventa consuetudine. “Man mano che i giorni passavano io andavo sempre più affezionandomi a Don Orione, tanto che avrei desiderato star sempre con lui, ascoltare la sua Messa, far da lui la Comunione, sentirlo predicare, far con lui tutte le altre pratiche di pietà, perché tutto in lui aiutava il raccoglimento, a meditare, a pregare”.

 Cesare ritrova la passione di vivere; trascorre i suoi giorni con un impegno nuovo, umile e fiducioso. Ritrova la pace e persino quella giocondità serena che sembrava cancellata per sempre dal suo volto. “Un giorno ero con gli altri in ricreazione. Ed a mia insaputa capita Don Orione, mi viene alle spalle, sopra di esse appoggia i suoi avambracci, e con le sue mani mi chiude gli occhi. Io credendo che fosse un confratello desideroso di scherzare, presi la cosa in ridere, e, per meglio far ridere la compagnia, esclamai: ‘come potete che possa conoscervi, se mi tenete chiusi gli occhi con le vostre mani?’. Allora anche Don Orione sorrise benevolmente”. Come sono lontane le ore della disperazione per la vista perduta!

Un unico interesse: la santità
Cesare pensa ormai solo a servire il Signore in letizia, deciso a farsi santo alla scuola di Don Orione. “Da che fui accolto da Don Orione, credetti, sentii, in mille maniere mi accorsi di essere fra le mani di un uomo straordinario, e questa fu l’irresistibile spinta che mi rese totalmente dolce l’abbandonarmi totalmente e con tutta fiducia alla sua direzione”.

 Sul finire del luglio di quello stesso anno 1920, Don Orione invia Cesare a Villa Moffa di Bra (Cuneo), casa di noviziato della Congregazione, per partecipare al corso di Esercizi spirituali. “Don Orione mi fece accompagnare a Villa Moffa nel mese di luglio. Ai primi di agosto ebbero inizio i santi Esercizi spirituali, dettati da Don Felice Cribellati e da Don Carlo Alferani. Di quel tempo la mia infelice memoria non si ricorda nulla delle lunghe ed importanti conferenze fatte da Don Orione. Solo mi ricordo che quando andai a parlargli, mi accolse con festa e mi domandò: Ebbene? Ebbene? Come vuoi essere vestito? Da frate o da Chierico? Io sorridevo senza rispondergli e lui rispose subito: ‘Ah, lo so, lo so, che tu vuoi l’abito talare!'”.

 Divenire sacerdote: era il vivo desiderio, nascosto in fondo al cuore di Cesare fin dai primi tempi della ‘conversione’. Lo custodiva segretamente. Quasi non osava pensarci, perché la cecità era un impedimento insuperabile. Don Orione, però, sapeva di questa aspirazione e gli aveva dato qualche speranza. “Poi mi disse che per allora potevo vestirmi con l’abito nero, ma che in seguito, se, come sperava fossero venuti altri ciechi, ci avrebbe vestiti di lana bianca, con un raggio d’oro sovra il petto…. La notte dell’Assunta del 1920 ebbi la grazia di ricevere il Santo abito dalle mani del mio veneratissimo Padre Don Luigi Orione e, grazie a Dio, fu sì povero che forse il serafico poverello d’Assisi mi avrebbe invidiato”.

 Dopo la vestizione, Cesare ritorna al ‘Paterno’ di Tortona e vi trascorre un intero anno, irrobustendosi interiormente in quell’ambiente di grande respiro spirituale, di santi esempi, di tanto sacrificio e di fervorosa vita comunitaria. Cesare veste da chierico, ma per volere di Don Orione si lascia crescere la barba come gli eremiti. I tanti ricordi di quell’anno resteranno un riferimento sicuro di valori e di atteggiamenti ai quali Frate Ave Maria ricorrerà per il restante della vita, come a sorgente purissima.

 L’anno seguente, il 1° di agosto 1921, Cesare, dopo aver partecipato agli Esercizi spirituali, si stabilisce a Villa Moffa: vi resta fino al maggio 1923. Frequenta la scuola, il ginnasio; preghiera e lavoro occupano il resto del tempo: “Vado a segar legna per la cucina… il sacrestano mi chiama per aiutarlo… vado pure a sbucciare patate, zucche e rape”. In quell’anno compie un’impresa di notevole valore simbolico: la costruzione di una grande ‘grotta di Lourdes’ a ridosso della collina sulla quale s’adagia Villa Moffa. Vi si dedica pazientemente per mesi, anche d’inverno. “Io ero pigro, per di più cieco, inoltre non avevo mai fatto di quei lavori, ma per amore della Madonna incominciai a lavorare con il piccone e col badile, sicché a poco a poco il lavoro mi divenne cosa dolce, assai più dolce che nella puerizia mi fosse il gioco”.

 Nel 1922 inizia il suo anno di noviziato. Padre maestro è Don Giulio Cremaschi, un sacerdote d’oro per la sua comprensione dei giovani, per il candore della sua semplicità, per la rara prudenza di educatore e, soprattutto, per la sua santità tutta impregnata degli ideali di Don Orione. Cesare Pisano percorre con grandi progressi la via della perfezione perché già molto libero dai tanti impedimenti dell’io e dei beni di questo mondo precocemente sottrattigli da quella ‘disgrazia’ del 1° novembre 1912 che, oramai, sempre più consapevolmente comincia a chiamare ‘grazia’.

 “Se penso a ciò che in breve tempo si operò in me, alla mia decisione risoluta di dare una buona volta un calcio a questo mondo corrotto e corruttore, maestro di odio, di invidia, di maldicenza, di impostura, di frodi, di scandali, pieno di ogni pericolo, tessitore di ogni inganno, devo riconoscere la verità, e la verità è questa: che non sono stato io a scegliere la parte migliore e a far bene, ma è il Signore e la Madonna che hanno scelto e fatto tutto per me”.

 All’Eremo con un nome nuovo: Frate Ave Maria
Cesare, il 13 maggio 1923, ancora in abito da chierico, lascia il noviziato di Villa Moffa per raggiungere l’antica Abbazia di Sant’Alberto di Butrio, sull’Appennino dell’Oltrepò pavese. Vi trova una piccola comunità composta dal superiore e parroco, Don Domenico Draghi, e da tre eremiti dediti alla preghiera e al lavoro manuale. “Venni in questo cantuccio di Paradiso, accolto paternamente, maternamente, fraternamente da quattro anime sante, qui viventi in carità eroica! Qui manca tutto… Anzi non manca niente a chi vuol farsi santo!”. Nella millenaria Abazia, un tempo gloriosa, poi abbandonata, e solo da poco riabitata, la povertà, i disagi e le privazioni accompagnano costantemente la vita degli eremiti.

 Dopo pochi mesi, il 9 settembre 1923, festa di Sant’Alberto, nell’antica e devota chiesetta dell’Eremo ha luogo la cerimonia della sua vestizione con il saio eremitico grigio con cordone bianco al fianco. Gli viene dato un nome nuovo, Frate Ave Maria, e una missione nuova: “Ti ho voluto quassù – gli dice Don Orione – perché da questa solitudine sentirai Dio più vicino a te; ti affido un compito, quello di pregare; prega sempre, prega per tutti”. Frate Ave Maria è consapevole che quel giorno è l’inizio di una vita nuova. E scrive: “Non sono più chierico, ma frate. Non mi chiamo più Cesare Pisano ma Frate Ave Maria. Ho tutte le ragioni di credere che questo antico cenobio quasi crollante sia mia stabile dimora. Il chierico Pisano ora è morto e fratel Ave Maria gli ha preso il posto… Laus et labor: ecco il mio programma!”. Alla mamma scrive: “Mamma, quando parlerete di me non dite più ‘quel mio figlio disgraziato…’, ma dite ‘Frate Ave Maria’. Tutto, anche quaggiù, è bello se si guarda non perdendo mai di vista il cielo”.

 Dopo appena un anno di vita all’Eremo, nel 1924, un altro evento giunge a marcare la vocazione di penitente e di orante del nostro Frate Ave Maria. Nella notte del 6 novembre 1924 si manifestò in lui, con l’inconfondibile segno di un repentino sbocco di sangue, la tremenda malattia della tisi che, in quegli anni, stroncava tante giovani vite. Frate Ave Maria, al quale il medico pronosticò pochi giorni di vita, sopravvive miracolosamente, ma resta per sempre sofferente e debilitato. Non potrà deporre mai del tutto questa sua nuova croce fisica.

 “Sono un povero cieco non solo in compagnia di sorella Cecità, ma anche d’altri acciacchi… con una voce rauca fino a rendersi inintelligibile in un minimo rumore”. Tosse, bruciori alle vie respiratorie, difficoltà a respirare, inappetenza costituivano il suo “cilicio invernale”. Ci scherzava su: “Quando s’avvicina l’inverno è come dovessi andare dal dentista…”.

 Accettando con responsabilità di fede questa nuova condizione di sofferenza, Frate Ave Maria argomenta: “Sono tutti i gioielli che mi dona il Signore e io sarò tanto balordo da ricusarli? Forse questi gioielli mi accompagneranno sino alla morte e non mi è lecito preferirne altri!”.

40 anni di preghiera, di croce e di felicità
Frate Ave Maria ormai tiene sapientemente in mano i fili con cui tessere la propria vita: esteriormente sono la cecità, la sofferenza, l’Eremo, la piccola comunità, la preghiera, la penitenza, il lavoro e le umili mansioni; interiormente sono l’esperienza della propria miseria e della Divina Provvidenza, la luce della fede, la carità, l’umiltà, la preghiera, l’intimità con Dio, con la Madonna, l’attesa confidente e impaziente della Patria celeste, il Paradiso.

 Del 1924 sono le prime lettere di Frate Ave Maria; col passare degli anni diverranno sempre più numerose. Sono un tesoro di spiritualità messo insieme per carità e per obbedienza. Il pio Eremita diceva: “Io non sono per parlare di Dio agli uomini: è un’arte troppo difficile! Io sono per parlare degli uomini a Dio; e questa è la cosa più facile, perché richiede solo un po’ di Fede e un po’ di Carità, ossia un po’ di buona volontà”.

 Nei suoi scritti dissemina numerose notizie biografiche e testimonianze della vita dello Spirito. Nel silenzioso fluire del tempo e “al caldo del Sole ond’io m’allumo”, germogliano nuovi sviluppi e fioriture di bene per il Cielo. La bellezza e la fragranza spirituale di quest’uomo restano custodite in quell’Eremo lontano e quasi dimenticato, tra pochi e semplici eremiti, in una vita ordinaria e disagiata. E’ un omaggio, una lode rivolta unicamente e gratuitamente a Dio che “si china dai cieli e guarda”. Poche persone lo raggiungono lassù, anche se, per volontà dei Superiori, intesse numerose relazioni per fare un po’ di bene alle Anime.

 Frate Ave Maria visse – come egli stesso ebbe a dire – la “restante vita terrena coi soli piedi in esilio, ma con la mente e col cuore già in Patria”. Fatta eccezione di due periodi trascorsi all’Eremo del Monte Soratte, presso Roma (1952-1954), e all’Eremo di San Corrado di Noto, in Sicilia (1954-1957), e di una visita al paese natìo, egli trascorse tutta la sua vita all’Eremo di Sant’Alberto di Butrio, fino alla vigilia della sua santa morte avvenuta, dopo un breve ricovero all’ospedale di Voghera, il 21 gennaio 1964.

 Cosa giova ancora ricordare di tutti questi anni, prima di iniziare la lettura delle sue lettere? Forse il “miracolo dell’acqua” al pozzo di Sant’Alberto? o gli episodi di estasi, di lievitazione o di preveggenza, segnalati da alcuni testimoni? O forse gli incontri con personaggi famosi della Chiesa e della società, inviati a lui da Don Orione o attratti lassù dalla fama di santità? Gli anni difficili e pericolosi della guerra 1940-1945? I disagi materiali, le incomprensioni subìte, le penitenze? Le ‘nozze d’oro’ della cecità? O magari alcuni “fioretti”, episodi simbolo di saggezza umana e divina?

 C’è tutto questo nella storia di Frate Ave Maria, e le biografie del pio eremita si sono fatte carico di una precisa descrizione storica. Ma l’introduzione biografica può fermarsi qui. Con quanto già conosciamo, siamo pronti per la lettura delle sue “Lettere dall’eremo” e con esse potremo risalire un poco, con lui, alle sorgenti interiori del mistero della sua vita e del suo canto: “Convertisti in luce le mie tenebre e in gioia la mia tristezza, sicché la mia è veramente una luminosa e deliziosa notte, perché l’unica mia luce, l’unica mia gioia sei Tu solo, O Gesù, figlio di Dio! O Gesù, Dio mio! O Gesù, figlio di Maria!”.

Don Flavio Peloso

 dal sito: http://www.donorione.org