Don Luigi dei terremotati

Don Orione non era un burlone, ma neppure un musone. Cercava piuttosto una sana, temperata allegria, quasi a compensare i molteplici problemi per i quali occorreva, anzi urgeva una soluzione. Si parla di terremoto e si evita di nominare incomprensioni, se non proprio contrasti, che pur ci furono. La salute vacillava e tuttavia non si poteva abbandonare il campo; i campi, sarebbe più esatto. Non dimenticava infatti, nonostante sommerso dai bisogni più immediati, d’essere fondatore di una nascente congregazione religiosa povera di uomini e di mezzi, e tuttavia in espansione. Basti solo pensare alle recentissime missioni aperte in America latina (dicembre 1913).
La preoccupazione ricorrente tuttavia era quella determinata dalla prossima guerra, paventata ma percepita ineluttabile, con il prevedibile richiamo alle armi di molti suoi giovani religiosi. Patriota qual era, non cercava sotterfugi per sottrarsi all’impegno, ma soluzioni praticabili per tenere in piedi la pianticella appena sbocciata, dubbioso persino la chiamata potesse riguardare tutti. La fiducia riposta nella Provvidenza, per lui, non era un fronzolo. Pur affannandosi, continuò a seguire la traccia, ritenuta non sua. Tant’è vero diede vita, in questo drammatico 2015, al ramo femminile della congregazione: le Piccole Suore Missionarie della Carità.
Raccogliere gli orfani significava salvarli nell’immediato, ma anche provvedere ad un loro futuro di studio e di lavoro. Don Sterpi, in uno sfumato cinematografico, apparirebbe con in bocca un “quel sant’uomo!” le mani intente ad imitarlo. L’aiuto ricevuto insieme all’esempio di dedizione suggerirà ad un bel gruppetto di beneficati di entrare fra le sue fila. Non saranno elementi di secondo piano, carichi com’erano dentro. Citiamo fra essi Don Gaetano Piccinini; a fronte dei tanti meriti un riconoscimento: Giusto fra le Nazioni. Pure il secondo direttore sanitario del Paverano, il Dott. Luigi Del Rosso, era fra questi orfani, insieme al fratello Domenico, diventato sacerdote.
Torniamo alla premessa per gustare due aneddoti.
Singolare è l’episodio che ci racconta Don Camillo Zorzoli, dell’Opera Bonomelli, anche lui accorso nella Marsica, dopo il terremoto.
«Si era ad Avezzano – ai primi di febbraio del 1915 – per raccogliere gli orfani e soccorrere gli scampati dal terremoto. Una sera si stava cenando – io, un mio collega della Bonomelli (Don Paolo Fabani) e un suo prete novello – nella rustica capanna di legno che serviva di abitazione, di dormitorio, di cappella ecc. –, e quella sera oltre il solito solo pane – che scusava la colazione e il pranzo e la cena – avevamo potuto avere, dalla cucina dei soldati, un po’ della loro pasta e qualche scatola di carne in conserva, quando entrò lui, Don Orione, che, al vedere quel bene di Dio – “tanta larghezza!”, disse lui, – fece un viso scuro; poi sedette tra noi e prese a mangiare. Ad un tratto sospese il pasto; ci guardò; fissando in particolare me, che gli sedevo di fronte, e, assumendo una cert’aria misteriosa, cominciò: “Si fa presto a giudicare la gente e attribui­re qualità e pregi, perché la si vede fare qualche cosa di buono… – È vero – diss’io. – Proprio lei! – rispose lui (allora non usavamo ancora tra noi darci il tu). – Lei si sbaglia, se mi stima più di quello che sono. Sa chi sono io? – Ed io, di rimando: – Un galantuomo almeno; e in ciò non sbaglio. – E lui: – Ma sa proprio, lei, sapete voi – rivolgendosi anche agli altri due – chi sono io? Perché faccio quello che faccio, già voi credete… io sono… io? un framassone, e dei più accesi, dei più influenti: un “trentatrè”, nientemeno; e, se faccio qualche cosa e se ottengo qualche cosa, è perché la setta mi aiuta e mi protegge; sapete, la massoneria è potente, potentissima; sono un gran massone. Ecco tutto… – Io ridevo, e pensavo: vedi come sa umiliarsi! E lui – Lei ride? Ne vuole le prove? Guardi. – E cava di tasca un grembiulino, una piccola cazzuola e le altre insegne massoniche, proprio dei “trentatrè”, e se ne orna, quasi pavoneggiandosi. Noi lo guardavamo, stupiti e increduli. Lui pareva godere del nostro stupore; ma di lì a poco, non potemmo più tollerare la finzione – e lui, così semplice e schietto, narrò che ritornava allora dall’aver convertito un pezzo grosso della massoneria, un “trentatrè”, un alto Ufficiale dell’Esercito, di stanza temporanea ad Avezzano e permanente a Roma, che gli aveva consegnato quegli emblemi massonici, come prova reale della sua abjura e della sua conversione. Si seppe poi che era stato indotto alla conversione dalla condotta edificante di Don Orione, che si svolgeva sotto gli occhi di tutti.
E che il nome di Don Orione suonasse alto ad Avezzano, può desumersi da quest’altro episodio. Un giorno Don Orione mi incaricò di andare a Pescina, una trentina di chilometri, all’altro capo del Fucino, a prendere dal Seminario dei materassi, che abbisognavano per povere orfanelle sofferenti; per il viaggio e per il trasporto mi suggerì di chiedere all’Autorità militare un camion e i conducenti. Ma l’ufficiale, al quale feci la mia richiesta – senza fare, data l’importanza del bisogno, il nome di Don Orione – nicchiò, balbettò che la mia richiesta esorbitava dai suoi poteri e mi rimise ad un suo collega di più alto grado. Ma anche costui prese a nicchiare: – Veramente… sì, ecco, potrei… ma… – Ond’io, quasi indispettito, misi fuori quel benedetto nome: – Vengo a nome di Don Orione… – Bastò: – Se è così – conchiuse tosto l’ufficiale –, le dò il camion e due uomini, anche tre, se li vuole… A Don Orione non si nega nulla. – E così potei riuscire nell’impresa affidatami. Andai a Pescina e al Rettore del Seminario – di cui una parte restava ancora in piedi –, ripetendo la mia richiesta, misi subito avanti quel benedetto nome: – Vengo da parte di Don Orione –. Ed ebbi quanti materassi volli.
Lui, Don Orione era sempre pronto per le opere di carità, le andava ansiosamente cercando e, quando il cuore non gliele offriva, coglieva tosto quelle che gli si presentavano. Una caratteristica particolare del sant’uomo era la giovialità e una perenne santa letizia; non era burbero, tutt’altro; era faceto e, all’occorrenza, sapeva usare le “trovate” di San Filippo Neri».
Anche Don Enzo Luigi Tramontani, già parroco arciprete a Campiano di Ravenna, in un opuscolo intitolato “Don Luigi dei Terremotati (racconti-testimonianze del 1985)” ci ha lasciato un suggestivo, delicato ricordo. Egli racconta che l’11 aprile 1962 moriva in Correggio (Reggio Emilia), il babbo suo, Pietro Tramontani. «L’infermo – egli scrive – volle comunicarsi con viatico e avere l’estrema unzione, che io gli recai con il pianto nella voce. Lo scortarono al Cimitero due Vescovi e una cinquantina di Confratelli…». Due anni dopo, Don Enzo prese la parrocchia e desiderò sapere dalla mamma sua la genesi del suo nome “Luigi”. La mamma allora gli confidò che il papà suo, “aggressivo romagnolo”, mentre si trovava militare in Avezzano, dopo il terribile terremoto del 1915, incontrò un sacerdote tutta carità, che si chiamava Don Luigi: – L’ha conosciuto lì – spiegava la mamma e continuò, rivelandomi nuovi particolari uniti a quell’incontro, come l’essersi arreso a ricevere la prima comunione, lui che non poteva vedere i preti… Io – continua Don Enzo – che sentivo un acuto bisogno di ricordare le distanze donde era venuta la salvezza dell’anima del babbo morto… immagazzinai la notizia della mia genesi onomastica senza particolare emozione. Nessuno nella nostra famiglia, né parenti, si chiamava Luigi; costitutivo già un caso a portare – seppur secondo – quel nome singolare e lo era ancora di più a essere diventato prete, io, un Tramontani. Oppure c’era un nesso, profondo e misterioso, tra le due circostanze?
Quando, nell’ottobre 1980 – due mesi dopo la scomparsa della mamma – venne beatificato Don Orione – la cui figura conoscevo, ma vagamente –, lessi alcune relazioni di stampa sulla sua attività benefica; tutte sottolineavano – benché fosse solo uno dei molti momenti caritativi – l’opera svolta durante il terremoto di Avezzano, che legava il nome del sacerdote a quello del perseguitato politico e scrittore Ignazio Silone.
Avezzano, Don Luigi Orione: fu per me una folgorazione! Adesso si svelavano le radici del miracolo. Sì, non doveva essere che così. Tutto veniva a chiarezza e compimento.
Era stato il beato Orione, quel “Don Luigi dei terremotati”, di fronte al quale anche la solida mura dell’aggressivo romagnolo aveva vacillato…
E quanto a me, percorrendo la mia storia, sentivo l’ombra di Don Orione allungarsi fino a me e gocciolare sulla mia anima l’insonne tormento e segno che fu già suo: farsi strumento di Dio per la conversione del padre».