Don Germano Corona

Don Germano Corona era nato a Tabina,

di Magreta, di Formigine (Modena, Italia), il 17 novembre 1932. È morto giorno 11 febbraio 2015 al Piccolo Cottolengo “Don Orione” di Genova – Paverano. Aveva 82 anni di età, 63 di professione religiosa e 53 di sacerdozio. Apparteneva alla Provincia “Madre della Divina Provvidenza” (Roma).
 Don Germano Corona è nato a Magreta (Modena) il 17 novembre 1932. Ma lui precisava a Tabina, che è frazione di Magreta, frazione a sua volta di Formigine, in provincia di Modena.

A pochi giorni dalla nascita gli morì la mamma Maria. Il papà Bruno si trovò con due frugoletti – Filippo e Germano – da far crescere. Solo. “Solo tutta la vita – scrisse Don Germano del papà -. Lo scarrozzavo a volte col mio trabiccolo. Passando per Ponte di Sant’Ambrogio, all’uscita della città, non mancava mai di farmelo notare. Gli era morta la moglie che, sbadata, gli aveva lasciato il secondo figlio di pochi giorni. Non era ancora il tempo del latte Nestlé, bisognava pellegrinare per trovare balie alla fame del figlio. Quante braccia a Ponte di Sant’Ambrogio ninnarono quell’incosciente, quante fasce mercenarie lo avvolsero. Lui aveva ancora 24 anni. “Ma, scusa, perché non hai provato a risposarti?”, gli chiesi impertinente una volta. “Avevo paura che la seconda non potesse amarli come la prima”. E qui si bloccava. Fissava il vuoto dal finestrino ed attendeva che lo scaricarsi per riprendere il cammino. Solo”.

 

A 13 anni, il 7 agosto 1945,  entrò sotto il tetto della Congregazione a Vigevano, poi proseguì a Borzoli e a Sassello i primi anni di scuola. Dopo il noviziato a Villa Moffa, emise la prima professione l’11 ottobre 1951. Fece il tirocinio a Bogliasco (1954-1956) e, terminati gli studi di filosofia e teologia a Tortona, fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1961.

Iniziò il suo apostolato sacerdotale a Magreta, come assistente (1962-1965), e poi passò a Bologna prima come vice parroco e poi come parroco dal 1966 al 1986. Gli fu affidata la direzione del Piccolo Cottolengo Genovese (1987-1991), a Camaldoli e poi al Paverano, che lasciò nel 1991 quando, in seguito alla morte di Don Angelo Riva, fu nominato economo generale, incarico che lo vide impegnato fino al 1998. Ritornò nella riviera ligure e nei Piccolo Cottolengo, a Sanremo un anno e poi, dal 2000 al 2011, al Paverano di Genova, in veste di direttore.

Nel 2011, era stato assegnato alla comunità del Santuario dell’Incoronata, a Foggia, ma dopo pochi mesi apparvero i segnali di un grave male che consigliarono il suo rientro a Genova per le cure continue di cui avrebbe avuto bisogno. Vi ritornò con veste di debolezza, con dignità e fede, da povero Cristo. I confratelli e altre persone buone del Paverano che gli furono amorevolmente vicini, gli resero gli ultimi quattro anni di malattia meno penosi e “offerta gradita a Dio”.

Era presente, in carozzella, al “Natale di Don Orione a Genova” di quest’anno. Dispensava un abbozzo di sorriso a chiunque gli capitava a tiro. Gli piacque l’idea che la Madonna con l’ “Eccomi” diede la password della sua vita a Dio e commentò compiaciuto questa espressione dell’omelia.

 

È un bel personaggio Don Germano Corona, ornato della saggezza popolare e della fede dei semplici, osservatore ironico e disincantato di persone e di eventi, dei quali sempre sapeva cogliere quello che conta. Anche per la sua vicenda umana e familiare ebbe un affetto filiale verso la Congregazione, che per lui era casa, famiglia, futuro, speranza. Fu ancora più riconoscente e fiero perché sotto le tende della Divina Provvidenza si trovò un posto anche per il papà Bruno, discreto e servizievole, per lunghi anni alloggiato nei 3 metri per 4 della portineria della Curia generale.

 

Don Germano è stato un religioso orionino di “marchio registrato”, coltivato tra le vigne e i banchi di Villa Moffa, abituato alle trincee quotidiane della Parrocchia (20 anni a Bologna) e del Piccolo Cottolengo (altri 20 anni), con pochi spazi lasciati ai protagonismi e all’autorealizzazione, come si dice oggi. Fu contento e realizzato di fare del bene, di stare al palo, di servire, di essere puntuale alle preghiere del mattino e alla meditazione quotidiana, devoto dei nostri “santi di famiglia”, sensibile ai bisogni delle persone.

 

Lo conobbi durante il sessennio 1992-1998, quando eravamo insieme nel Consiglio generale, in Via Etruria 6. Io il più giovane e lui più stagionato di 20 anni. Correva tra noi due un feeling istintivo pur tra tante e notevoli diversità. Lui diceva che ero “un bravo ragazzo” e io dicevo che era “un buon uomo”. Che cosa intendessimo con quelle parole non lo sapevo bene allora e neanche ora. Però ci sentivano familiari. E familiari ci sentivamo quelle volte che, recentemente, incrociavamo gli sguardi e qualche parola nelle brevi visite al Paverano. E ora so di avere perso una persona cara, familiare.  Per lui prego e invito a pregare.

Don Flavio Peloso

 

 

HABEMUS PRETEM

Uno scritto di Don Germano Corona nel 50° del suo sacerdozio.

Le grandi tappe della sua vita, compresa l’ultima.

 La prova generale l’ho fatta assistendo a Milano all’ordinazione sacerdotale di mio fratello. Era l’unico familiare e non lo riconoscevo neppure tanto era il tempo trascorso senza vederci. Aveva lasciato il seminario diocesano per farsi missionario e gli hanno fatto trascorrere la vita tra scartoffie e bilanci. Divorato da un tumore lo andavo a trovare, da Genova a Negrar (VR), ogni domenica. L’ultima volta il medico mi disse di non rientrare. Capii e mi preparai a trascorrere la notte su una sdraio. Raccolsi il suo ultimo rantolo. Ancora noi due soli. Non ho mancato all’appuntamento: selvatici, ma uniti nell’ideale.

II particolare immancabile dell’ordinazione sacerdotale era l’immaginetta – ricordo.

Per la prima me la cavai ricopiando un qualche stereotipo. lo sono nato alla Tabina che è frazione di Magreta, frazione a sua volta di Formigine, in provincia di Modena. Sradicato dal cascinale dove nacqui fortunosamente, del mio luogo natio non conoscevo niente e non ho frequentato nessuno. Il parroco, però, mi fece ugualmente festa abbinandola a quella di S. Luigi, suo protettore.

Prepararono la seconda immaginetta per il paese dove io feci voli pindarici, partendo dalla Trinità e planando non so dove. Durante la processione mi ripassai il panegirico: una cosa da compatire. Come Dio volle, tutto finì con i fuochi d’artificio.

La terza immagine la ideò Don Aldo Viti. Mi sto ancora chiedendo se era un omaggio o uno scherzo da prete. Lui si dava un soggetto diverso: sembravano due baffi incrociati, ma per lui erano Cristo in croce. Dietro vi era scritta la data del mio ingresso in parrocchia come suo successore. Gli ordini non si discutono e così passai dalla guardia del proverbiale bidone di benzina al vertice di una parrocchia a Bologna dove, nel 1969, c’erano le premesse per la strage dell’Italicus, squarciato da una bomba nella galleria di San Benedetto Val di Sambro e per il botto della Stazione. Un’aria irrespirabile che puzzava di zolfo.

La quarta immagine fu per il mio venticinquesimo di messa. Grande festa con sorpresa a scoppio ritardato perché il regalo il mio Superiore Provinciale me lo fece l’anno successivo spedendomi a meditare sulle alture di Camaldoli – Genova.

Adesso sono arrivato alla quinta immagine. Me la son fatta io perché dopo cinquant’anni di servizio credo di averne il diritto. In linea con lo spirito ecumenico dilagante ho scelto una poesia di un poeta turco, N. Hikmet, e come logo “A gloria di Dio Padre” preso dal “Gloria”, il gran finale della Messa. Una specie di marcia dell’Aida, prima che cali il sipario sulle mie vicende umane.

Il sesto santino/ricordo, quello da morto, lo vorrei risparmiare perché immagino già come andrà a finire: fra le centomila foto che ora col digitale sparano, col programmino foto/shop del computer tireranno fuori chissà quale mia immagine e il superiore dell’epoca, bontà sua, farà un breve elogio. Non fatemela, lasciatela perdere: sarò affaccendato in altre faccende.

Habemus pretem e ve lo tenete così com’è.

Non c’era bisogno di un regista o di chissà quale uomo di sedicente cultura per dirci quello che sappiamo da sempre. Perché da sempre chi si accosta a Dio lo fa con timore e tremore. Basta aprire una pagina qualsiasi della Bibbia. Istintivamente la creatura davanti a Dio si mette sulle difese. Dio però le dice: “Cammina! Ci sono io con te”. Complessi di inferiorità, rimorsi, disfatte, riprese, conquiste, speranze, illusioni..: “Cammina, va avanti, con te ci sono io”.

Rivedo le ultime scene del “Diario di un curato di campagna”. Il protagonista, distrutto nella salute, ripara presso un compagno di studi che si è spretato e gli chiede di confessarlo. Costui non vorrebbe dato il suo stato di irregolarità. Il Curato lo zittisce: “Che importa? Tutto è grazia!”. Penso al profeta Geremia (20,9), anche lui attanagliato dagli scrupoli: “Mi dicevo: Non penserò più a Lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa. Mi sforzavo di contenerlo ma non potevo”.

Habemus pretem, ma alla maniera di Dio. Non c’è bisogno di maceranti introspezioni: c’è quel fuoco, basta e avanza!