Nell’apparente silenzio
Accade talvolta di notare, nella biografia di personaggi rilevanti, zone buie, nascoste, magari attraversate da umili accenni di crescita, come nei campi i timidi germogli che spingono la primavera. Niente di eclatante, comunque. Dopo un 1915 tragico ed intenso (terremoto della Marsica ed inizio della prima guerra mondiale) immaginavo Don Orione sommerso nei problemi annessi almeno fino al 1918, anno in cui promise, coi tortonesi, di erigere un santuario alla Madonna della Guardia per ottenere la grazia della fine del conflitto. Tre giorni dopo, l’11 novembre, la “celeste guardiana” aveva gradito e concesso, per cui era necessario rimboccarsi le maniche.
Non erano tempi di facile credulità se, i primi giorni di maggio del ’17, una processione urlante, bandiera rossa in testa, si galvanizzava al grido di: “Morte al re, abbasso il governo, viva la rivoluzione, morte ai signori, morte ai preti”, rompendo, saccheggiando, picchiando. Don Orione ed i suoi accorsero a proteggere il vescovado, riuscendo nell’intento grazie all’arrivo dei soldati. Se la forza fu determinante, tuttavia, fu altrettanto incisivo il fatto che le lavandaie del rione San Bernardino ricordavano come il sacerdote avesse voluto iniziare la propria attività in mezzo a loro ed a favore dei figli. Inoltre qualcosa, molto poco a dire il vero, cominciava a trapelare di quanto aveva fatto nella Marsica e, ancor prima, a Reggio e Messina. Probabilmente a favore di Don Orione giocava anche l’affermazione gridata da Romita nella piazza grande di Tortona: “Preti non ne vogliamo, noi, ché, se ne volessimo, ci basterebbe Don Orione: lui non è un prete come gli altri; lui è il prete dei poveri…”.
Alcuni giorni dopo la sommossa il riconosciuto “prete dei poveri” pubblicò uno scritto dal sapore di meditazione.
“Quello che è accaduto qui e altrove, altro non è che la logica conseguenza di una lunga ed intensa propaganda di odio contro ogni autorità: altro non è che il frutto della scristianizzazione che va dissipando nelle nostre masse popolari tutto ciò che era patrimonio ideale e morale del passato, e vi ha fomentato irrequiete aspirazioni, basse cupidigie e odio profondo.
Domani potrà accadere di peggio, se tutte le persone oneste non si uniranno per fronteggiare il pericolo che ci sovrasta; ma fronteggiare un tale pericolo non è possibile, se non si pensa seriamente a mantenere salda la religione che è il primo principio dell’ordine e dell’autorità.
Bisogna andare al popolo, e sacrificarsi, e farsi ammazzare, ma rifarlo cristiano.
Non si facciano illusioni le Autorità: con le baionette e con la galera a nulla approderanno, anzi, sarà peggio.
Siamo Tortonesi e conosciamo uomini e tradizioni: il fuoco arde sotto la cenere, e, domani, può divampare più furibondo di ieri.
Il primo dovere lo dobbiamo fare noi preti: ed è quello di esseri veri cristiani, se vogliamo rifare cristiani gli altri.
Il moto rivoluzionario dei giorni trascorsi deve servirci a farci fare un buon esame di coscienza.
Che abbiamo noi fatto pel popolo?
Siamo noi sempre il sale della terra e la luce del mondo?
Onoriamo noi la Chiesa con opere di virtù e di sacrificio e di carità e siamo noi i servi di Gesù Cristo nei suoi poveri, nei derelitti e nelle sue membra più inferme ed abbandonate?
O non corriamo noi invece dietro al sorriso dei ricchi, malcelando il disprezzo dei poveri del Signore, che furono sempre il più dolce amore e il tesoro della Chiesa di Gesù Cristo?
Domani verrà un’ondata, e con le anime spazzerà via anche i nostri santi altari. E noi dormiamo?
Sentiamo, o fratelli, la grave responsabilità che ci sta sulla testa. Con la mitragliatrice all’imboccatura delle strade si trattiene un popolo per qualche ora, ma non si ricostruisce la società.
Non col ferro o col fuoco si ammansa la fiera: e il popolo, quando non ha più la fede, è belva”.
La maggioranza della popolazione, già affamata da miseria atavica, non credeva nella possibilità di vincere il conflitto, per cui iniziò una processione di profughi dai luoghi dei combattimenti, in particolare dalla Venezia Giulia. Non doveva essere granché diversa dalla invasione odierna, considerato come più di un cinquantennio dalla nascita dell’Italia, non fosse stato sufficiente a formare gli italiani. Don Orione, reso ulteriormente sensibile dalle esperienze vissute, non ebbe difficoltà a rendere se stesso e l’Opera disponibile all’amico La Fontaine, Patriarca di Venezia, organizzatore del “traghettamento”. L’affiatamento fra i due e la reciproca stima crebbe cementando una umanità smarrita, senza risorse, bisognosa di tutto.
Il 7 novembre 1917, tanto per sciorinare un’altra data, Don Orione assicurò al Patriarca la disponibilità delle sue strutture, in particolare per i malati, i poveri, gli orfani abbandonati. E, ad indicare da dove provenisse questa ampiezza di spazi precisava: “Noi ce ne andremo in soffitta!”. Non era una battuta. Di fronte al dubbio che 50 religiosi fossero religiose (una vocale sbagliata sul telegramma ci sta), comunicava alle proprie suore: “…se saranno religiose verranno da voi e voi andrete a dormire nell’orto Marchese qui vicino… cederete loro i vostri letti e per voi metterete delle brande: anche qui, se occorre, in cappella…”. Era un silenzio operoso!