Paolo VI e l’orologio della provvidenza
La Provvidenza come un orologio, che ha però un orario diverso dal nostro. È la metafora usata da Paolo VI nel maggio del 1958, quando era arcivescovo di Milano, in occasione dei venticinque anni dall’avvio del Piccolo Cottolengo Milanese, per ricordare nell’Aula Magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore lo spirito e l’opera di don Luigi Orione, il fondatore nel 1903 della Piccola Opera della Divina Provvidenza e nel 1915 della Congregazione delle Piccole Suore Missionarie della Carità. Una testimonianza pubblicata nel volume ”Le Mani della Provvidenza – Don Orione e i genovesi”, uscito a Genova in occasione della canonizzazione nel 2004.
Una vita, quella di Don Orione, tutta dedicata alla carità, “forzando i limiti, come lasciò scritto Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, nei suoi appunti personali, delle ordinarie preoccupazioni della beneficienza”.
Una metafora sulla Provvidenza che val la pena di ricordare ora che, proclamato a sua volta Santo il 14 ottobre scorso da papa Francesco, Paolo VI, al secolo Giovanni Battista Montini, è uscito dal cono d’ombra in cui era rimasto per troppi anni immerso tra il suo predecessore Giovanni XXIII e il lungo pontificato di Giovanni Paolo II. Nonostante la lunga e multiforme attività svolta al servizio della Chiesa, prima da semplice sacerdote, poi da assistente ecclesiastico della Fuci (1925-1933), da sostituto della Segreteria di Stato (1937-1943) e da pro-segretario di Stato (1944-1954) con Pio XI e Pio XII, di cui fu stretto collaboratore, da arcivescovo della grande diocesi di Milano (1954-1963), da cardinale (1958) e da papa, quando, succedendo a Giovanni XXIII il 21 giugno 1963, assunse il nome di Paolo VI. Un pontificato, durato quindici anni fino al 6 agosto 1978, che ebbe tra le sue pietre miliari il completamento l’8 ottobre 1965 del Concilio Vaticano II, che era stato aperto da papa Giovanni l’11 ottobre 1962, e, sulla sua scia, la promozione di numerose riforme, tra cui l’istituzione del Sinodo dei Vescovi (1965) e l’approvazione della nuova messa in lingua locale (1969), il rafforzamento dell’orientamento ecumenico e più in generale il dialogo con il mondo. Fu il primo papa a viaggiare in aereo. Tra le sue encicliche più famose la Populorum Progressio (1967), lo stesso anno in cui stabilì che il 1° gennaio fosse celebrata la giornata mondiale della pace, e la Humanae Vitae (1968) e tra le lettere apostoliche la Octogesima adveniens (1971) per gli 80 anni della Rerum Novarum di Leone XIII. Quando morì stava per compiere 81 anni.
Un servizio alla Chiesa svolto in tempi difficili e tribolati, dagli anni del fascismo segnati dalle leggi razziali a quelli della seconda guerra mondiale segnati a loro volta dall’occupazione tedesca, a quelli della ricostruzione del Paese diviso tra DC e PCI e della Guerra fredda tra Usa e Urss, a quelli del terrorismo segnati dall’uccisione dell’amico Aldo Moro. Con una capacità particolare di immedesimarsi con i problemi e le ansie del prossimo con cui veniva via via in contatto da sacerdote, da vescovo, da cardinale e infine da papa. Di ciò vi è traccia abbondante nell’ampia bibliografia che racconta e illustra la sua vita, di cui fa parte tra l’altro una lunga intervista rilasciata nel 1967 al filosofo francese Jean Guitton, e nel ricco epistolario che risale agli anni del seminario.
E tra questi documenti c’è appunto questa illuminante ed edificante riflessione sulla Divina Provvidenza che merita di essere letta con attenzione. Se non altro perché, di questa che Montini chiama “intelligenza vegliante”, tutti nella nostra vita possiamo toccare con mano la presenza e di cui tutti i giorni invochiamo l’aiuto quando nel Padre Nostro diciamo “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Una testimonianza, illustrata nella tipica prosa montiniana, e che ha per titolo “Il senso del povero, il senso di Dio”, ovvero le due antenne che don Orione “ha innalzato nel cielo e che ha reso efficaci per l’opera sua così da renderla meravigliosa ai nostri occhi”. Due antenne protese verso l’invisibile “che sanno cogliere voci, sanno captare energie che noi poveri mortali, e gente non adusata alle vie della santità, trascuriamo: come chi non ha l’apparecchio radio non può cogliere le mille voci, le tante musiche che percorrono i nostri orizzonti e entrano nelle nostre case”. Aggiungendo: “noi siamo sordi e siamo non ricettivi a tutto questo linguaggio che pervade il cielo”. Mentre i Santi hanno questa capacità di cogliere e di tradurre. Parole che acquistano un particolare significato essendo state dette da un Santo su un Santo.
La prima antenna è il senso del povero, che è la capacità, rilevò Montini, di percepire i bisogni degli altri e che in don Orione era così connaturata al punto di portarlo a cercare sempre l’occasione di fare un’opera di carità.
La seconda antenna, “che non ci è ignota ma che noi sappiamo così malamente adoperare”, è invece quella della Provvidenza “che avverte come, sopra la vicenda umana, i casi umani, la storia, per dire una parola solenne, e potremmo anche dire la nostra umile vicenda di Renzo e di Lucia – come la direbbe il Manzoni a chiusura del suo libro sapiente –, sopra questa vicenda umana, c’è una forza agente, c’è una intelligenza vegliante, c’è una bontà premurosa, c’è una mano che manovra le vicende umane stesse. Difficilissimo il cogliere e ridurre in schemi e categorie della nostra logica e della nostra statistica questa funzionalità”. Difficilissimo, spiegò, “perché i nostri strumenti hanno orari diversi; la Provvidenza non ha il nostro orario, non ha il nostro orologio”.
“Alcune volte, aggiunse Montini, viene prima e anticipa. Alcune volte viene dopo, e ci lascia delusi al momento in cui noi l’avremmo invocata. Agisce, direi, a suo modo, non è vero? Non si lascia imbrigliare da schemi che mettano contenti il nostro egoismo e quella strana voglia che abbiamo di rendere sperimentali le cose che non si sperimentano, le cose dello spirito, le cose di Dio”.
“Ma il fatto è che c’è, e che alcune volte ci previene, alcune volte ci segue, alcune volte cambia la scena per realizzarsi in altra maniera da quella che noi supponevamo e volevamo: alcune volte, invece, sembra quasi venire a colloquio e dire: – Sì, vuoi questo? Ecco te lo do! Che cosa vuoi ancora? – Vorrei quest’altro. Eccolo pronto! – Ma mi manca una terza cosa. Ecco una quarta, che viene sovrabbondante, così…”.
Che per Montini “questo venire a colloquio e far trovare le cose che si compiono e che sembrerebbero impossibili alla casualità umana è un gioco di prestigio di Domineddio”. “Che di fatto, aggiunse, è il gioco dei Santi, che hanno la percezione più saggia, più profonda, più acuta dell’azione di Dio vicina a quella degli uomini, e sanno mettersi in fase – come si dice in termine tecnico – e cioè non soltanto avvertire che c’è, questa causalità, ma – la parola non è molto propria – imbrigliarla, contenerla, riceverla e, in certo senso, applicarla ai bisogni che hanno davanti”.
“Don Orione fu un mago, per questo. Intanto, intitolò l›opera sua alla Divina Provvidenza, che vuol dire ad un rischio continuo, ad un atto di fede basato non su argomenti tangibili e umani, terreni e temporali, calcolabili, ma sopra questo incalcolabile ma reale aiuto che viene da Dio. E perché ciò fosse possibile mise nel cuore suo, e in quello dei suoi figli e successori, l’arte di captare la Divina Provvidenza; che è un supremo disinteresse, che è una preghiera che non dorme mai, che è una bontà che sorride quando verrebbe tanta voglia di piangere, che è una pazienza che resiste quando tutto farebbe dire: – Beh, finiamola e basta così! Se il mondo non vuole, vada alla malora anche lui; che io sono stanco di star a beneficare e a consolare chi non vuole essere né beneficato né consolato … Questa capacità di ricevere, di meritare l’aiuto della Provvidenza – l’ascetica cioè che rende possibile il contatto e l’innesto della causalità di Dio con la nostra – don Orione la ebbe”.
“Il senso del povero, il senso di Dio. Mi sembrano le due antenne che spiegano, in gran parte almeno, concluse Montini, la psicologia di don Orione”.
Una meditazione che allora Montini invitava il suo uditorio a provare e che vale anche per noi che oggi la leggiamo.
Giorgio Carlevaro