Editoriale

Cari Amici e Benefattori,

il periodo estivo sta esaurendo le sue tradizionali “liturgie”, anche in tempo di coronavirus, con assembramenti al mare e ai monti (e non solo nelle discoteche), feste di clan familiari e tra amici e tanta voglia di evasione, di divertimento …

Tutto questo è certamente in contrasto con la situazione nelle nostre Case genovesi, e in tutte le strutture socio sanitarie, dove gli ospiti sono ancora costretti ad una quarantena che dura da mesi e dove i contatti con i familiari restano un “lusso”, un “privilegio”, secondo regole precise codificate e sempre e solo su appuntamento.

Dobbiamo però ringraziare tutti gli operatori, gli animatori ed educatori, che non hanno mai interrotto il complesso lavoro di mediazione ospiti-parenti in varie forme, per rendere possibili momenti di incontro, espressioni di affetto.

Un grazie anche ai familiari, che hanno accettato con discrezione e benevolenza questa situazione eccezionale, valorizzando gli aspetti positivi, in attesa di una piena liberazione della vita di relazione, sacrificata in nome della riduzione dei rischi per la salute.

Chi ha potuto godere, anche quest’anno, di un periodo di ferie, di vacanza, avrà certamente saputo apprezzare in modo nuovo la libertà e il contatto con la natura.

Per me, nato sulle Piccole Dolomiti, il ritorno alle mie montagne e ai luoghi della mia infanzia ha permesso di guardare il mondo, la vita, dall’alto, spaziando dalla montagna, alla collina, alla pianura e spingendo lo sguardo fino al mare, all’orizzonte e sentirmi parte del creato, di immergermi nella natura, di raccogliere da essa un inno di ringraziamento a Dio. Dopo questa “ricarica” di vita e di speranza, mi auguro di trovare nuovi stimoli per chinarmi sulle fragilità e debolezze delle persone a me affidate e spero che anche tanti nostri operatori sentano la responsabilità di infondere nuova fiducia nella vita dei nostri ospiti, nonostante tutti i limiti, le debolezze, le paure.

Mi viene spontaneo richiamare l’esperienza di Frate Ave Maria, divenuto cieco a 12 anni e che, dopo aver incontrato Don Orione, è vissuto chiuso in un eremo tutta la vita. Eppure era felice. Scriveva: “Un cieco, grande peccatore, perdonato da Dio, in abito di penitente, chiuso fra le quattro mura di un eremo, che è felice; tanto felice da avere grande compassione dei più ricchi, dei più potenti, dei più sapienti di questo mondo, ma che non hanno fede, ma che non hanno amor di Dio. Questo cieco, questo ammalato, questo solitario è felice; di una felicità non egoista, perché piange per la infelicità altrui. E prega il suo Dio e la sua Madre Celeste, affinché il numero degli infelici sia ridotto a più pochi che è possibile”.

I Santi sanno guardare il mondo, la vita, dall’alto, con gli occhi di Dio.

Con un poco di invidia, lasciamoci attrarre dal loro esempio.

don dorino zordan