Anonima

Cominciamo col piede sbagliato, cosa che mi si confà, in quanto ho col sinistro un contenzioso datato, e me lo tengo. Vorrei raccontare una piccola storia, vista dal di dentro, con l’intento primario di non annoiare e la speranza nascosta d’interessare. È talmente minima da non meritare risalto e ancor meno nomi, salvo qualcuno, con funzione esplicativa. C’era una volta un prete, certo Don Pietro Donzelli che, inviato in Sardegna (a Selargius) per gestirvi un seminario, ricco di zelo e d’energia  estese il proprio ruolo a produttore di “ladri” (terra e paglia trattati in modo da diventare mattoncini secchi per l’edilizia povera) e ciclista occasionale per favorire il mandato ricevuto, e forse pure per diletto. Si recava nei paesi del cagliaritano, d’accordo coi parroci che gli facevano trovare un discreto numero di genitori, per la maggioranza poveri, incuriositi dalla proposta d’un futuro da religioso per qualche figlio, con la prospettiva comunque di studio oltre le elementari lasciata trasparire ad arte. Siamo prossimi agli anni del bum economico (1957) ma la miseria è ancora tanta. Di sé suggeriva, serio: “Sono figlio spirituale di Don Orione” e, faceto: “Non vorrei somigliare a quell’asino che, tirando un carretto pieno di bellissimi e profumatissimi fiori, si inorgogliva, ragliando di gioia, per l’ammirazione e l’entusiasmo della gente che accorreva da ogni parte …”. Quantunque, visti i risultati, avrebbe avuto il diritto d’essere soddisfatto.

Io scesi in scena l’anno dopo, poco informato di ciò che andavo a fare ed assolutamente all’oscuro delle premesse, acquisite in età ormai matura. Quattro anni belli, intensi: scuola, musica, lettura, gioco. E un rileggere il cristianesimo con la semplicità e l’umanità dei sacerdoti ai quali era affidata la nostra crescita. Non mi capacitavo del perché non venissero chiamati “dottori” come accadeva al mio paese, ma ne ero contento poiché quelli veri (medici, per capirci) li detestavo per via di certe punture inferte appositamente per far male. L’idillio si spense di fronte all’obbedienza, se ci riferiamo ai voti religiosi. Da laico io la chiamai giustizia. Una pena immeritata, approdata alla lettura settimanale da parte del Direttore Provinciale, rimasta inalterata nonostante l’inutile tentativo di ripristinare la verità. I “malfattori” eravamo cinque, ma fui il solo a traumatizzarmi. Rientrato a casa studiai finché non acquisii la certezza dell’inesistenza d’un lavoro al termine del percorso. Avevo stretto amicizia con un coetaneo, uscito dal Don Bosco, e stavamo spesso assieme con scarsa voglia di legare con una compagnia ritenuta distante, differente dal nostro sentire. Invitato ad una serata di ballo casalinga, trascorsi il tempo in lunghi discorsi con chicchessia. Non mi ero divertito, anzi tendevo alla depressione, giacché con l’ausilio delle chiacchiere avevo stilato una statistica deludente: la maggioranza dei presenti apparteneva alla cerchia di maestri in attesa del primo impiego e, dalla mestizia comune, si arguiva lo fosse a vita!

Un giovane vicino, di fama notoriamente torbida, mi propose d’andare a Genova, in una casa di Don Orione. Penso quel nome sia stato la chiave di volta. La mia non era una conoscenza approfondita del sacerdote, ma lo immaginavo nelle sembianze di chi operava per lui. Ed in effetti fu un ritorno a casa. Sebbene fosse un luogo assolutamente nuovo, si respirava la stessa aria dell’esperienza pregressa, direi si percepisse persino lo stesso odore. Era il 15 agosto. Quindici giorni dopo avevo un lavoro. Dopo due mesi Don Antonio Ferrari, incontrato brevemente nel passato a Fano, mi prese in disparte dicendomi: “Vieni con me”. Di fatto ci sono ancora, sebbene lui abbia aderito troppo presto al richiamo celeste che l’ha sorpreso nel consueto donarsi quotidiano, senza remore o spazi propri, escluso forse la preghiera. È con lui che ho cominciato a conoscere bene Don Orione, leggendo qualsiasi articolo o libro lo riguardasse, compreso il materiale edito dalla Congregazione, allora piuttosto prudente e parca. Volle celebrare il mio matrimonio (la scelta di un 12 non fu casuale) con una omelia sul Manzoni, e battezzare mio figlio, quarant’anni or sono. Sul nome dell’erede avevamo idee chiare: doveva essere Orio, in onore immaginerete ben di chi, sebbene all’anagrafe, dove non era gradito, fui costretto a tirar fuori in Orio Vergani quale lasciapassare.

Non ho conosciuto Don Orione ma ho avuto il privilegio di avvicinare ed ammirare una marea di persone al suo seguito, meravigliose nel proprio ambito, qualunque fosse, dal religioso al benefattore, all’ex allievo, all’amico, dai volontari in Italia ed in missione, ai collaboratori, agli ospiti. I più mi sono stati maestri di vita, fautori del guardare in cielo per veder la terra e scorgere i mille bisogni che angustiano tanta gente. Con sofferenza vissi l’uscita estemporanea d’un nostro sacerdote durante la beatificazione di Don Orione, il 26 ottobre 1980. Accusava quanti lo attorniavano di festeggiare un uomo, mentre chi aveva fatto tutto era Dio, tramite la sofferenza di Cristo. Aveva ragione, ma noi eravamo lì per dire grazie alla Chiesa che riconosceva gli insegnamenti di Don Orione conformi al Vangelo: la preferenza per i poveri, la povertà vissuta, gli ultimi … . Come nel corpo sociale ciascuno è portato naturalmente ad eccellere in un settore specifico, così si può dire dei “doni” di Dio. E siccome non tutti siamo condottieri, è lecito ognuno segua più da presso chi sente maggiormente prossimo.

Altra cosa che non ho gradito è che mi abbiano “rubato” il 12 marzo. E non solo per una perdita personale, ma anche per la motivazione: cadendo la data in periodo quaresimale, non si sarebbe potuto festeggiare San Luigi Orione con una certa pompa, come se lui, in vita, ci avesse mai tenuto. Così lo festeggiamo il 16 maggio, giorno della canonizzazione (2004). Rivaluto la scelta di non aver proseguito. Da laico l’imposizione mi pesa di meno. Sono libero di ragionare con la mia testa e, transitando dal cuore, organizzarmi nel modo più idoneo perché possa ritenermi in sintonia col Fondatore ed il Vangelo. Per non chiudere col mugugno, dato che son genovese solo d’adozione, mi hanno entusiasmato le conclusioni dell’ultimo capitolo generale ed il mandato assegnato ai Superiori. E’ un tentativo di ritorno al passato nella sostanza. Ed è indicativo esso sia stato proposto dalla base, a significare quanto fosse sentito dalla stessa. Poveri per i poveri, lo slogan. Io sono d’altra era, antiquato; non ho paura dei verbi, mi danno un senso di completezza. Essere poveri per aiutare i poveri. Suggerisce due impegni precisi e senza perder tempo in ciance.

Ogni tanto, quando mi guardo nei pensieri altrui, mi chiedo: “Come fanno a sopportarmi ancora?”. Sono lo strumento per esercitare la pazienza? A qualcosa allora servo anch’io!