Cercare il bene degli altri
Per dire a uno: hai sbagliato, stai sbagliando, bisogna proprio essergli amico, volergli molto bene.
Dirlo a una persona un po’ più estranea, non ci azzardiamo neanche, è molto più difficile. Oggi la privacy è sacra. Prevale l’idea che non ci dobbiamo intromettere negli affari degli altri. Ed è vero, ma solo in parte, perché così facendo prevale l’individualismo a scapito di ogni legame sociale che ci vede tutti coinvolti nel bene e nel male. Tutti responsabili.
Questo vale anche da un punto di vista religioso, della fede.
L’educazione che abbiamo ricevuto o anche dato, ci porta a valorizzare molto il rapporto personale con Dio, usare il pronome io invece che il noi in molte preghiere, ma anche a dimenticare la dimensione comunitaria e sociale della fede, che è una dimensione essenziale. Il nostro rapporto con Dio è strettamente legato al rapporto che abbiamo con gli altri. San Giovanni ci ricorda che non possiamo amare Dio se non ci accorgiamo di chi ci vive accanto.
Il vangelo parla di fratelli, e anche se è riferito in particolare ai cristiani, ai fratelli nella fede, sappiamo però che si estende poi ad ogni uomo.
La fede ci proietta in una fraternità universale, credenti e non credenti, una fraternità costitutiva.
Così il vangelo di conseguenza parla di correzione fraterna fra i cristiani, sul modello di una prassi giuridica in vigore tra i Giudei, secondo le norme dell’Antico Testamento. Prassi che prevedeva, con saggezza e mitezza, vari passaggi, dal rapporto interpersonale di fiducia, a tu per tu, a quello di gruppo, un gruppo di amici, e poi eventualmente il ricorso all’autorità, fino alle estreme conseguenze di considerare quella persona fuori dalla comunità, un estraneo, con cui iniziare tutto un lavoro di riavvicinamento e conversione.
È il potere di legare e sciogliere che Gesù dà alla sua Chiesa, come leggiamo in Matteo 18,18. Lo scopo è far prendere coscienza della gravità del peccato commesso e favorire il ravvedimento.
Naturalmente il peccato di cui si parla nel Vangelo, e così è sempre stato nella prassi cristiana dei primi secoli, si riferisce esclusivamente ad una situazione di peccato grave e pubblico, che poteva recare molto danno e scandalo al vivere della comunità, lacerandola al suo interno. Non si riferisce ad un peccato qualsiasi come a rapporti più o meno tesi tra le persone che non riguardano aspetti essenziali della fede e della morale, anche se sempre l’agire del cristiano deve essere ispirato alla via della misericordia e del perdono. Se stai per pregare e sai che un tuo fratello ce l’ha con te, va prima a riconciliarti con lui, dice Gesù. Il contrario di chi parlando degli errori degli altri li amplifica o ne sparla con sadica soddisfazione, senza compassione o delicatezza.
Quello che possiamo imparare noi, e che è sempre attuale in ogni epoca, è questo non darla mai vinta all’indifferenza, a chiudersi in se stessi, a non rassegnarsi comunque alla sorte degli altri, ma a tentarle tutte pur di non perdere nessuna persona.
È vero che c’è la coscienza di ciascuno, ma il rischio molto forte è quello di perdere ogni giudizio su ciò che è bene e su ciò che è male. Non è vero che esiste il bene o la verità, si pensa oggi, ognuno è libero di pensarla e agire come meglio crede. Questo è il rischio grande che disgrega il vivere sociale.
Fra una giusta tolleranza e una apatia vuota di valori il confine è molto labile. E se correggere, o indicare una strada, da parte di istituzioni sociali quali ad esempio la famiglia o la scuola, è di per sé già difficile, correggere fraternamente ci sembra cosa improponibile e irrealistica.
Ma è appunto ciò che chiede il vangelo: di non arrendersi, di non essere indifferenti al bene comune, ma in nome del bene che si deve volere alle persone, essere capaci di un intervento intelligente, per vedere di dare una mano a chi sta vivendo un momento di crisi. La franchezza evangelica è un modo concreto di amare ed essere solidali. È il bene più prezioso che abbiamo la fraternità, la comunione, l’amore tra di noi.
C’è un dovere di sentinella che tocca sia il singolo credente che la comunità nel suo insieme.
Il profeta Ezechiele in nome di Dio si sente chiamato ad essere sentinella sulla torre e a indicare il pericolo che incombe sulla città. Alcune leggi permissive anche allora procuravano disastri dal punto di vista sociale.
La Chiesa non teme di mostrarsi lungimirante quando denuncia gli sbocchi negativi e rovinosi per la società di certi indirizzi o impostazioni di vita.
E questo essere sentinelle non è altro che il grave compito educativo e di prevenzione che devono sentire le singole persone, le famiglie e tutte le istituzioni sociali attive in questo tempo.
La Chiesa lo fa non perché si arroga competenze non sue, ma perché non esiste un vangelo disincarnato, lontano o al di sopra di quella che è la vita degli uomini e delle donne. È un preciso dovere di carità il bene delle persone.
Essere sentinella poi lo ricordiamo è uno dei compiti privilegiati che il Papa san Giovanni Paolo II ha affidato ai giovani durante le giornate mondiali della gioventù, quando li ha definiti sentinelle del mattino, invitandoli ad essere vicini ai loro coetanei vittime delle più svariate devianze.
Sarebbe davvero bello che la chiesa dei cristiani fosse una comunità di fratelli che si vogliono tanto bene da stimolarsi reciprocamente al bene e da correggersi quando qualcuno deraglia un po’.
E poi ci rimane sempre il dovere e la possibilità della preghiera anche quando fossero esaurite o impraticabili tutte le altre vie. Questo è il sogno di Chiesa che siamo chiamati a coltivare anche oggi, ogni giorno: essere profeti di un modo diverso di amare e perdonare.
d.g.m.