Don Orione e la carità nell’educazione (Card. T. Bertone)

Il nome di don Luigi Orione, sempre chino sulle necessità del prossimo, nella sua straripante carità sacerdotale, ha travalicato il territorio della sua Tortona e vorrei dire anche della sua Genova, e ha raggiunto il mondo, in un crescendo di iniziative e di opere sociali1. Fondò scuole, chiese e case per i poveri e i bisognosi, convinto che «solo la carità salverà il mondo» e mantenendo sempre vivo il ricordo del beato Cottolengo e di don Bosco. Uno dei cofondatori del P.C.I. scriveva nel 1920: «Don Bosco! Era un grande, che dovreste cercare di conoscere. Nell’ambito della Chiesa… seppe creare un imponente movimento di educazione, ridando alla Chiesa il contatto con le masse, che essa era venuta perdendo. Per noi che siamo fuori della Chiesa e di ogni chiesa, egli è un eroe, l’eroe dell’educazione preventiva e della scuola-famiglia. I suoi prosecutori possono esserne orgogliosi!».
Anche Gaetano Salvemini classificò don Bosco tra i profeti apolitici d’Italia, assimilandolo a Francesco d’Assisi. Così Umberto Eco, che ha scritto: «Questo geniale riformatore intravede che la società industriale richiede nuovi modi di aggregazione ed allora inventa una macchina perfetta… la genialità dell’Oratorio gestito su basi minime; prescrive ai suoi frequentatori un codice morale e religioso, ma poi accoglie anche chi non lo segue. In tal senso il progetto di don Bosco investe tutta la società dell’era industriale, alla quale è mancato il suo “progetto don Bosco” con la stessa immaginazione, la stessa inventiva organizzativa, sociologica, lo stesso senso dei tempi». Questi autori-scrittori hanno colto il cuore dell’opera di don Bosco, il suo senso vero: un grande amore ai giovani, tradotto in un servizio alla loro formazione umana e professionale. Credo che le medesime parole possano essere applicate al genio di don Orione, nel suo lavoro tra i giovani, alla cui formazione dedicò i suoi primi
sforzi apostolici.

IL RAGAZZO LUIGI ORIONE A VALDOCCO
Luigi Orione conosce e scopre don Bosco a 14 anni: esattamente il 4 ottobre 1886 entra nell’Oratorio Salesiano di Valdocco, vivente ancora don Bosco. «Quanto benedico Iddio – dirà più tardi – di aver conosciuto don Bosco. È stata tanta la luce di Dio che ha penetrato la mia vita da don Bosco […] che in me ogni altra impressione è superata, come la luce delle stelle è superata da quella del sole. Quando mi trovai a Torino, mi si aprirono gli occhi e il cervello; capii la grazia grande che avevo ricevuto nell’essere stato malato, dopo cinque mesi, a Voghera, perché quella malattia mi aveva condotto da don Bosco. «Se non ci fosse stato per me don Bosco – ripeterà spesso – né io sarei quel che sono, né voi, miei figli, sareste qui. Tutto dobbiamo a don Bosco…».
Luigi Orione, con quella apertura, avida di orizzonti sconfinati, di ideali grandi e santi, respirò a pieni polmoni l’aura salesiana di Valdocco, se ne impregnò in maniera tale da rimanerne segnato per sempre. Qui, infatti, ha origine quello sconfinato amore per i giovani, quel prodigarsi per loro che costituirà tanta parte dell’azione di lui fondatore. Conobbe dunque don Bosco, vivendo sotto lo stesso tetto. Ne ascoltò la parola suadente. Ne bevve lo spirito. Ne studiò e apprese i metodi. Ne ammirò i risultati pedagogici e apostolici. Ebbe il privilegio, a quel tempo concesso a pochi data la malferma salute del Santo, di confessarsi da lui. Al termine di una di queste confessioni si sentì dire, più che con la parola col penetrante sorriso celestiale: «Noi saremo sempre amici!».

«L’EDUCAZIONE È COSA DEL CUORE»
Diventato don Orione, comprese perfettamente, come diceva don Bosco, che l’educazione è cosa del cuore ed è necessario che tutti i protagonisti dell’educazione, prima di tutto i giovani, convergano in una comunione di interessi e di obiettivi, per la maturazione di una autentica personalità, umana e cristiana. Mi sembra che il tratto sacerdotale più caratteristico dei nostri due Santi sia la paternità. Proprio don Orione, in diverse lettere, scrive: «Con grande amore in Gesù Cristo, come Padre, benedico tutti e ciascuno in particolare». Se il significato della paternità (maternità) è quello di dare la vita, essa si identifica per il sacerdote nella carità pastorale, come «virtù con la quale noi imitiamo Cristo nella sua donazione di sé e nel suo servizio. Non è soltanto quello che facciamo, ma il dono di noi stessi, che mostra l’amore di Cristo per il suo gregge». La paternità del sacerdote è legata alla paternità che Gesù stesso ha rivelato come manifestazione del Padre («Chi ha visto me ha visto il Padre» Gv 14,9). Dunque, la sequenza sacerdote-Gesù-Padre è obbligatoria perché, secondo le parole di Gesù, «nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Da Dio Padre viene ogni paternità e Gesù ne ha rivelato la realizzazione attraverso la sua umanità. Certo in Cristo tale realizzazione era perfetta, mentre noi possiamo solo tentarne l’imitazione per grazia di partecipazione. Modelli più vicini a noi, ma anche più vicini a Cristo sono i santi. Il tratto della bontà, della tenerezza, dell’accoglienza, da solo però non esplicita sufficientemente la loro paternità dal duplice aspetto, educativo e insieme spirituale: se mancasse o diminuisse il primo, cioè l’affetto e l’amicizia, verrebbe meno la pratica del Sistema preventivo; se mancasse il secondo, cioè la responsabilità per la salvezza, cadrebbe il da mihi animas. La paternità è una richiesta ricorrente oggi. I giovani forse non la chiedono, ma ne hanno bisogno. Sembra uno degli aspetti carismatici maggiormente messi a rischio dalla molteplicità delle occupazioni e dal nuovo rapporto che intercorre tra comunità, singoli confratelli e superiori, tra genitori e figli, tra educatori e giovani. Può essere messa a rischio anche dalla “mentalità manageriale”. Le sue manifestazioni vanno riconsiderate nel nuovo contesto della famiglia cellulare e del clima educativo che privilegia la partecipazione e il dialogo. Ispirandosi all’esempio di don Bosco e alle linee maestre della pedagogia cattolica, don Orione applicò con sfumature e accentuazioni proprie il metodo preventivo che aveva appreso a Valdocco, e lo chiamò «sistema cristiano-paterno». Si tratta anche in questo campo, come ha detto Giovanni Paolo II, di una «meravigliosa e geniale espressione della carità cristiana». «Fondamento del sistema – scrive don Orione – non solo deve essere la ragione e l’amorevolezza, ma la fede e la religione cattolica – praticata – e il soffio di un’anima e di un cuore di educatore che ami veramente Dio e lo faccia amare, dolcemente, insegnando ai giovani le vie del Signore. L’educatore deve sempre parlare il linguaggio della verità con la ragione, col cuore, con la fede».
Don Orione si rifà essenzialmente al metodo dell’amore, comune a tutta la pedagogia cristiana; pone l’accento non solo sui principi della pedagogia e della psicologia, ma anche su quelli della paternità e dello spirito di famiglia: «sistema cristianopaterno», appunto.
I termini «paterno» e «cristiano», intimamente connessi tra di loro, vengono illustrati e commentati nel citato Progetto educativo orionino, di cui commentiamo i
nn. 85-91.
METODO “PATERNO”
85. «Qualificando come paterno il suo sistema, don Orione, anzitutto, vuole indicare che i due protagonisti dell’educazione vanno considerati padre e figlio. L’educatore, in certo modo, incarna da un lato la paternità di Dio e, dall’altro, la funzione del padre di famiglia; quindi l’ideale di educazione si potrà perseguire nella misura in cui si assume un atteggiamento paterno nei confronti dell’allievo». Senza paternità non si può avere alcun tipo di crescita, perché mancherebbe all’educatore la capacità di accettare l’alunno così come è e, di conseguenza, la generosità per impegnarsi a fondo nello sviluppare, per quanto possibile, tutte le sue potenzialità. Del resto l’alunno che non si sentisse amato, difficilmente si verrebbe a trovare nelle disposizioni psicologiche atte a favorirne la partecipazione a quanto gli viene proposto. «Paternità vuol dire dedizione assoluta. Ma la paternità nell’ambito educativo non può essere disgiunta dall’autorità».
86. «La perfezione del governare – segnala don Orione – è compresa in queste cinque parole: Vegliare, amare in Domino, sopportare, perdonare e pascere in Domino». Un educatore, secondo don Orione, deve coltivare le seguenti attitudini:
1. «Essere nemico dei vizi e medico dei viziosi: deve vigilare sopra di essi, e cercare tutti i mezzi di ridonare all’anima loro una sanità morale e religiosa vigorosa. Non essere corrivo a credere troppo agevolmente […] a chi viene a riferire su questo o quell’altro».
2. «Correggi, sovra tutto, con la forza del tuo esempio, e con la dolcezza dei tuoi avvertimenti. E quand’anche fossi costretto a punire, non punire mai mai mai con acerba severità».
3. «Odia con tutto l’animo i vizi, ma ama con la più tenera carità quelli che hanno mancato, poiché con la tua amorevolezza giungerai a correggerli e, correggendo, a convertirli».
4. «Non dobbiamo mai lasciarci uscire di bocca un ordine – non dirò neanche la parola: un comando –, quando la passione è in sul caldo».
5. «Quando siamo costretti a negare ciò che vien chiesto – come talora conviene o è dovere di fare –, si faccia in modo che il suddito vegga la pena che noi proviamo di non poter concedere, e si conosca da lui che la pura forza della regola e del dovere, e non altro, ci costringe al rifiuto».
6. «Prendere in mano, con grande riverenza, l’anima dei giovanetti a noi affidati, come farebbe un buon fratello maggiore con i fratelli più piccoli. […] Avviciniamo i giovani come piccoli fratelli nostri, unendo al dolce, alla mitezza e bontà anche quel contegno dignitoso – ma non abitualmente severo – che valga a conciliarci la loro benevolenza».
7. «In tutto facciamo loro comprendere che vogliamo il loro verace bene. […] II giovane ha bisogno di persuadersi […] che viviamo non per noi, ma per lui; […] che il suo bene è il nostro bene; che le sue gioie sono le nostre gioie, e le sue pene, i suoi dolori sono pene nostre e nostri sono i suoi dolori. Egli deve anche sentire che siamo pronti a fare per lui dei sacrifici, e a veramente sacrificarci per la sua felicità e per la sua salvezza. […] Egli deve leggere nel cuore! Deve aver fiducia di noi, deve sentirci. Egli sentirà Dio, sentirà la Chiesa, la Patria attraverso noi».
METODO “CRISTIANO”
87. «Nella scuola è necessario che sia tutto verità ciò che si insegna; quella verità che nutre, che non inaridisce il cuore perché non è mai disgiunta dalla virtù e dalla carità. Ogni vostro insegnamento, dunque, elevi le menti dei vostri alunni a Dio».
88. «Non infatuate i giovani per la scienza, ma portateli attraverso lo studio e la scienza a dar lode al Signore dal quale vengono tutti i doni e tutti i lumi».
89. «Vi dirò di guardarvi dal far prediche tutti i giorni, né si dovrà trasformare la scuola in una chiesa, né la cattedra in un pulpito, no! Ma tutto deve essere alto e santo nella scuola, come nella chiesa; però, mai prediche nelle scuole; ma tutto in voi dovrà predicare Dio, e di tutto servirvi per infondere e diffondere la fede e l’amore di Dio benedetto: sarà oggi una parola a metà spiegazione, sarà domani un riflesso, sarà bollare d’infamia una mala azione di un personaggio storico. Oh!, quando si ama Dio, tutto vibra di Dio! E si ha sempre un gesto, una parola che fa di più che una predica intera!».
90. Per don Orione ciò che conta nella formazione religiosa è che l’educatore sia lui, prima di tutto, un convinto credente. Per questo afferma con forza: «Esempio! Esempio! Esempio! I giovani non ragionano tanto: seguono e fanno ciò che vedono fare».
91. La coerenza e l’autenticità sono, per don Orione, gli obiettivi fondamentali dell’azione educativa e del suo sistema pedagogico in particolare. Scrive: «Noi dobbiamo avere e formarci un sistema tutto nostro di educare […], un sistema che reagisca contro l’educazione cristiana data all’acqua di rose, di apparenza più che di sostanza, di formule più che di vita. Noi vogliamo e dobbiamo educare profondamente l’animo e cattolicamente la vita, senza equivoci: educare ad una vita cattolica non in superficie, cioè di nome e non di fatto, ma a una vita cattolica pratica, che abbia base nei sacramenti, vita di unione con Dio, di preghiera e di pietà vera, vissuta e ignìta di virtù».
NOI NEL QUOTIDIANO
Se volessimo portare a livello di esperienza feriale l’esempio dei nostri due santi, si potrebbero individuare alcune piste che sono destinate a toccare, in vario modo, la fisionomia del lavoro pastorale quotidiano. Le desumiamo dal Vangelo di Giovanni 10,1-16 sul Buon Pastore.
– Conoscere le persone che si è chiamati a guidare («Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me»). San Gregorio Magno, parlando della conoscenza del Signore, raccomanda anche la conoscenza del cuore, l’amore: «Domandatevi, fratelli carissimi, se siete pecore del Signore, se lo conoscete, se conoscete la luce della verità. Parlo non solo della conoscenza della fede, ma anche di quella dell’amore; non del solo credere, ma anche dell’operare».
– Vivere insieme con le persone che si è chiamati a guidare o animare («Egli chiama per nome le proprie pecore e le conduce fuori»). Il distacco, o peggio, il “sentirsi superiori” non favorisce l’autorevolezza.
– Saper condividere i problemi e le debolezze («Il mercenario quando vede venire il lupo abbandona le pecore… io offro la mia vita per le pecore»). L’autorità non ha e non può avere tutte le risposte. Le dovrà cercare insieme con tutti. Questo dà autorevolezza.
– Guidare verso il futuro («Cammina avanti ad esse»): la fede è camminare sempre verso un’altra “terra”. Quando un’autorità difende solo il passato e mostra paura del futuro perde di autorevolezza perché i credenti desiderano un’autorità che, come Abramo, come Mosè, come Gesù continui a spingere la storia verso la pienezza perché si è convinti che il Regno di Dio appartiene più al futuro che al passato.

dal libro: Le mani della Provvidenza