A Genova “una città nella città”, dove gli ospiti sono abitanti
Una delegazione del Congresso eucaristico ha scelto di visitare il Piccolo Cottolengo di don Orione. A Genova lo chiamano anche “Il Paverano”. 550 ospiti residenti, più due centri diurni e un servizio ambulatoriale per bambini disabili. Circa mille le persone che vi lavorano, in un “clima di famiglia”. La vittoria di Maurizio e le focacce di Tina.
Una città nella città. Con i residenti che non sono semplici ospiti, ma abitanti. Perché al “Paverano”, come lo chiamano i genovesi, hanno trovato la loro casa. Appena entri al Piccolo Cottolengo di don Orione, questa “aria di famiglia” non solo la senti, ma la tagli col coltello, tanto che ti lascia addosso la voglia irresistibile di non andartene così presto. Irresistibile, come i sorrisi di chi al “Paverano” ci lavora, anche se la parola “lavoro” è certamente riduttiva. Irresistibile, come i saluti, gli abbracci e i baci di chi accoglie i “visitatori” prendendoli per mano per farli entrare, anche solo nello spazio di un momento, nel loro mondo. Con disarmante, e toccante, semplicità.
“Nulla più della vita vera è riabilitativo”.
Non è uno slogan, ma la frase con cui Daniele Gandini descrive ai delegati che l’hanno scelto come luogo della misericordia il Piccolo Cottolengo di Don Orione, che qui a Genova è conosciuto anche come “Il Paverano”. I delegati, guidati da monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno e anch’esso Figlio della Divina Provvidenza (la Congregazione fondata da don Orione), hanno potuto visitare la struttura che, nata nel 1924, accoglie 550 ospiti residenti, tra anziani e disabili, più due centri diurni dedicati alle due categorie e un servizio ambulatoriale per bambini disabili, che eroga circa 20mila trattamenti all’anno. Circa mille le persone che vi lavorano, di cui ottocento dipendenti e duecento volontari.
“Dopo varie esperienze, sono arrivato nel posto giusto”,
racconta Maurizio, che dieci anni fa, a causa di disturbi psichiatrici, ha tentato il suicidio buttandosi giù da un ponte. Risultato: la paralisi delle gambe e diversi problemi sia fisici che spirituali. “Nei primi giorni che ero qua – la sua testimonianza – sono passato in uno dei corridoi e ho letto una frase: ‘Nel più misero degli uomini vive l’immagine di Dio’. Ho riflettuto e ho detto: questa deve diventare la mia casa. Qua ho imparato a convivere con gli altri, a ricevere misericordia e a dare un pochino, nel mio piccolo, anche se quello che do io è poco”.
A Maurizio i delegati del Congresso hanno consegnato la “targa” con il logo dell’evento. Non prima di aver gustato una gustosissima focaccia: l’autrice è Tina, un’altra delle ospiti, che ha travasato l’arte del ristorante di famiglia dove ha lavorato nelle gustose pietanze ora cucinate per gli abitanti della sua nuova casa.
“Non potrei vivere senza il don Orione”, ci racconta Laura Crovetti, che al Paverano è operatore geriatrico da 21 anni: tra le terapie più innovative che sta sperimentando, quella della “reminiscenza”, destinata agli anziani con deficit di memoria: “Dove non si può lavorare più con la memoria a breve termine, si lavora con la reminiscenza sul passato”. Stesso spirito della “validation therapy”, destinata ai malati gravi di Alzheimer: “È un metodo empatico, grazie al quale si entra nel loro mondo e si convalidano le loro emozioni. Quando la parte cognitiva viene meno, cerchiamo di sfruttare quella emozionale. Dove è assente la memoria, rimane il ricordo”.
“Più che per essere ricoverate o assistite, le persone vengono qui ad abitare”, insiste Gandini riportando alla memoria uno dei cinque verbi del Convegno di Firenze, su cui anche i vescovi si soffermeranno nelle catechesi di domani. “Abitare è un verbo che al Cottolengo di Genova ne racchiude tanti altri”: “vivere, desiderare, ascoltare, scambiare, dialogare, lavorare”. Al Paverano il tempo si dilata, perché è modulato su bisogni e attese di ogni singola persona: ce lo spiega Eleonora Marullo, educatrice dei disabili, davanti al padiglione “Sciaccaluga”, inaugurato a marzo e all’ingresso del quale campeggia un grosso albero colorato disegnato sulla porta. Due i nuovi reparti, che accolgono persone con disabilità miste: uno è per le disabilità più lievi, dove sono maggiori i bisogni educativi, l’altro è per le disabilità più gravi, dove c’è più bisogno di interventi riabilitativi. La scelta del Peverano è quella della diversificazione del tipo di disabilità all’interno dello stesso reparto. “Ma don Orione non usava la parola ‘reparti’, li chiamava famiglie”, puntualizza Eleonora.
L’appezzamento di terreno dove ora sorge il complesso degli orionini è stato acquistato da don Orione per 1.850.000 lire, insieme a 400 malati. Era il manicomio di Genova. In quello stesso anno, il 1933, mentre Pio XII proclamava l’Anno Santo della redenzione, Adolf Hitler iniziava il suo piano di sterminio delle persone disabili, che anticipava l’Olocausto. Oggi, quelle “vite non degne” abitano qui. Prima di decidere se acquistare o meno quello che oggi è il “Paverano”, don Orione ha passato tutta la notte al Santuario della Guardia, in ginocchio, aggrappato alla cancellata della cappella dell’apparizione. Alla base di vite cambiate, c’è anche una notte di preghiera.
dal sito: http://agensir.it/chiesa/2016/09/16/a-genova-una-citta-nella-citta-dove-gli-ospiti-sono-abitanti/