La mia esperienza di volontario

ASSOCIAZIONE VOLONTARI “DON ORIONE” GENOVA
Testimonianza del Presidente Gian Carlo Gestro

Se ripenso al tempo passato, riflettendo sull’individuo che ero una volta, stento a riconoscere in quel giovane uomo, con la testa piena di sogni fallaci ed aspettative di vana gloria terrena, me stesso!

Spesso, quando ci si affaccia alla vita, uscendo da quel periodo pieno di folli ideali e vani progetti, chiamato giovinezza, si ha l’impressione, che nonostante le prime dolorose sconfitte ed i primi sogni infranti, l’esistenza terrena in fondo ci arride, se solo abbiamo il coraggio di osare e prenderci quello che, a nostro avviso, ci è giustamente dovuto. In quest’epoca di sogni e miraggi, volutamente s’ignora ciò che alla nostra offuscata vista è confuso, può risultare d’intralcio ed indurre la nostra assopita coscienza a meditar e ragionare sul senso della vita: dolore e sofferenza infinita, malattie gravi ed invalidanti, esistenze improvvisamente spezzate e relegate per sempre fra le mura di una casa di cura, la morte … Tutto ciò sembra non toccare a noi, ai nostri cari, alla nostra sfera di affetti; tutto par destinato agli altri, sembra che esso non ci debba riguardare mai da vicino. Di mala voglia andiamo a trovare un parente od un conoscente ammalato, guardando spesso l’orologio durante tali visite, come se quei brevi attimi che dedichiamo al nostro caro, non dovessero terminare mai!

E tale ero io, che orbo in un mondo di ciechi, egoista fra gli egoisti, inconsapevolmente, mi aggiravo entro i margini di un abisso pauroso che stava per inghiottirmi.

L’avvenimento che segnò l’inizio del mio cambiamento di rotta, fu rapido, improvviso, spietato e senza appello, come spesso le cose che cambiano la nostra vita sanno essere: una mia cara amica, con cui praticamente si era cresciuti assieme, Teresa, fu colta una sera da un malore improvviso che la portò ad essere ad un passo dalla morte. «Doppio aneurisma cerebrale – sentenziarono i medici – sarà un miracolo se si risveglierà dal coma.». Fu la dura sentenza che i medici emisero, senza possibilità di appello.

Io, sconvolto dall’improvviso e doloroso evento, ancor pieno di boria ed arroganza terrena, non mi volevo rassegnare al triste verdetto: ancora una volta cercavo di evitare la realtà, il dolore che stava trafiggendo la mia anima cercando di ignorarlo, illudendomi che fosse tutto un brutto sogno.

Passarono i mesi.

Teresa si “risvegliò”: tutto in lei era morto, paralizzato. Tutto tranne il cervello e gli occhi.

Il nuovo verdetto dei dottori fu ancora peggiore: «Rassegnatevi – dissero alla madre ed ai familiari – più di così mai migliorerà, vivrà in condizioni vegetative al massimo una decina di anni.».

A distanza di quasi vent’anni da allora, posso dire che solo nella durata della vita di Teresa, essi sbagliarono.

Mi sembrava di impazzire.

Come era possibile che ciò accadesse?

Perché ciò doveva capitare proprio a lei, che già fino allora aveva duramente lottato contro una serie di gravi lutti che avevano già colpito la sua famiglia? Perché Dio aveva permesso ciò?

Ah, quanti “perché” l’uomo orbo della luce di Dio si pone.

Non potevo credere che quella donna, resa ormai irriconoscibile dalla lunga degenza e dai farmaci poteva essere la Teresa che io conobbi. «Non può parlare, non può né bere, né mangiare autonomamente, non può alzarsi, né muovere un dito, può solo muovere gli occhi: e questo è il solo ed unico modo con cui comunica con il mondo esterno.

No, non volevo né potevo credere che quella giovane donna piena di vita e di interessi, che avevo conosciuto fino ad allora, fosse condannata ad una pena così talmente atroce che il solo pensarci mi faceva (e mi fa) impazzire. Lei che amava così tanto la natura e l’aria aperta, viaggiare e scoprire il mondo, doveva rassegnarsi oramai ad osservare il misero panorama che si vedeva dal balcone della sua stanza, se qualcuno le girava la testa in tale direzione. Rassegnarsi a trascorrere il resto della sua vita fra le quattro mura della stanza ove ella giaceva relegata, perennemente.

Confesso che dopo di quella prima volta che feci visita a Teresa, dopo il risveglio dal coma, passò un bel po’ di tempo prima che andassi nuovamente a trovarla, confesso mi mancava il coraggio di vederla in quelle condizioni.

Contemporaneamente le “cer-tezze terrene” su cui avevo cercato di fondare la mia vita andavano via, via sempre più crollando, al pari della parabola evangelica di chi cerca di edificare la propria casa sulla sabbia.

Prima la malattia, lenta ma inesorabile di mia madre, che nel giro di un paio d’anni la porterà alla morte, dopodiché, la cerchia delle amicizie, gente per cui avrei sacrificato la vita, mi abbandonò lasciandomi solo al mio destino. Infine la situazione lavorativa, che degenerando sempre più, arriverà al culmine con il fallimento dell’azienda per cui lavoravo da più di trent’anni, ed il conseguente licenziamento.

In quei momenti di sconforto assoluto, per dare un senso ad un’esistenza travagliata da dolore ed amarezza, mi feci coraggio e cercai di vincere la sensazione di oppressione e dolore che mi assaliva ogni qualvolta varcavo la soglia del Paverano, l’istituto religioso in cui Teresa era ricoverata, cominciando ad intensificare le mie visite.

Via, via che le mie visite aumentavano, s’intensificavano di pari passo anche i rapporti umani con gli altri Ospiti con cui venivo in contatto.

La prima che conobbi, compagna di stanza di Teresa, era un’anziana donnina di nome Concetta, Concettina come la chiamavano tutti, ospite del Paverano da più di cinquant’anni. Affetta da nanismo, aveva lasciato la natia Pacentro, in Abruzzo, ai piedi del Gran Sasso. A soli diciannove anni, dopo la morte dei suoi genitori, seguita poco dopo dai suoi due fratelli più piccoli, tutti accolti nella casa del Santo Luigi Orione, loro nuova famiglia. Dopo una vita passata ad aiutare al reparto guardaroba del Paverano, si trovò inferma, a seguito di un grave ictus che le compromise gravemente la parte destra del corpo. Donna all’apparenza rude e schiva, dotata di scarsa cultura, possedeva però una grande personalità ed una fede inversamente proporzionali alla sua statura. Ah, come ricordo i suoi discorsi ed i suoi consigli, nei pomeriggi in cui andavo a trovare Teresa, pieni di Fede e saggezza contadina, tipici della fiera ed indomita gente D’Abruzzo!

Poi venne Mario Branca, un dipendente dell’Istituto, arrivato ad esso inizialmente come volontario, il quale quasi ogni giorno, dedica parte del suo tempo libero dell’intervallo mensa a trovare i suoi amici “ammalati”, uomo eccezionale, dalla fede granitica e dotato di un’umanità rara, che diverrà nel tempo uno dei miei migliori amici e mi sarà sempre accanto nei momenti più difficili. Poi incontrai Davide Gandini, segretario generale dell’Opera Don Orione genovese, professore di Diritto, scrittore, uomo dalla cultura sterminata come il suo cuore e la sua bontà. Infine Laura, Maria, Maurizio, Angela…

Sono loro, oramai la mia “vera famiglia”, che sostituirono la mia famiglia originaria, via, via che essa si assottigliava con il passare del tempo e con gli inevitabili lutti.

È la voglia di rivedere questa mia “nuova famiglia” che fa scaturire in me il desiderio di correre al Paverano, se, a causa delle più svariate vicende, sto’ un po’ di tempo senza andarci. È la voglia di ascoltare la voce dei miei amici, i miei nuovi familiari, farmi carico, per quanto possibile dei loro problemi, cercare di aiutarli nelle piccole cose quotidiane, magari anche con delle inezie come un caffè od una telefonata ad un parente lontano.

Ebbene, credimi, o mio sparuto lettore, non v’è ricompensa più grande di un “grazie” di questi miei fratelli così segnati!

E che dire della serafica pace che respiro, non appena varco la soglia dell’Istituto? Del senso di pace e sicurezza che si respira all’interno dell’antica chiesa claustrale? Par quasi che il Santo Luigi Orione, sia lì, sempre presente sulla soglia, pronto ad accogliermi ed abbracciarmi. Al Paverano si respira “aria di Paradiso”.

Posso affermare con sicurezza, dopo tale esperienza di vita, che in questo nostro mondo “di sani e dei vincenti”, con tutte le sue iniquità e nefandezze, malignità e cattiverie, è esso il “vero mondo malato”!

E noi che ci illudiamo di “essere sani e vincenti”, con tutte le nostre convinzioni e certezze pronte a crollare al primo zufolo di vento primaverile, siamo i veri miseri, i perenni sconfitti, gli afflitti d’ogni male che può interessare l’animo umano, orbi come siamo della Luce di Dio.

Gli ospiti del Paverano, così come tutti quelli che trascorrono buona parte del loro travaglio terreno entro i confini angusti di un letto d’ospedale, minati dalla malattia e dal dolore, sono i “veri fortunati”, i “vincenti”, perché offrendo il loro dolore, i loro “corpi crocefissi”, i “loro chiodi conficcati nella viva carne”, a Gesù Cristo Nostro Signore, sono da Lui i prediletti ed i figli più amati, perché la loro sofferenza li ha resi simili a Lui.”

Gian Carlo