L’aiuto alla vita debole come dinamica di civilità e di fede in Don Orione
Relazione di Don Flavio Peloso
Genova, 20-22 giugno 2008
La cultura della vita, nella prospettiva orionina radicata nella concretezza della carità cristiana, nasce non da considerazioni ideologiche ma dal quotidiano incontro con le varie espressioni dell’esistenza umana, soprattutto nelle sue condizioni di fragilità, constatando come queste stimolino la creatività e il consolidamento di valori veramente primi e di risposte pratiche sempre più umanizzanti.
E’ per questo che le istituzioni e attività di aiuto e promozione della vita debole sono “fari di fede e di civiltà”. Mentre raggiungono l’obiettivo primo di aiuto alla vita debole, esse costituiscono anche una risorsa e un aiuto alla società debole perché in taluni contesti è “in crescita”, in altri è “limitata” da permanenti condizionamenti e in altri ancora è “in diminuzione”.
“Il servizio alla vita debole” è un autentico ricostituente civile, perché attiva, in chi è aiutato e in chi aiuta, il circolo vitale dell’amore nelle sue dinamiche inscindibili di bisogno/gratuità, domanda/risposta, solitudine/comunione, bene ricevuto / bene dato.
Benedetto XVI pone un criterio per valutare maturità o debolezza di una società in Spe salvi 38: “La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana”.
CULTURA DELLA VITA E CULTURA DELLA MORTE:
UN PRODIGIOSO DUELLO
L’enciclica “Evangelium vitae” richiama l’attenzione su “l’impressionante moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone e dei popoli, soprattutto quando essa è debole e indifesa. Alle antiche dolorose piaghe della miseria, della fame, delle malattie endemiche, della violenza e delle guerre, se ne aggiungono altre, dalle modalità inedite e dalle dimensioni inquietanti” (n.3).
Minacce alla vita
Quali sono le “modalità inedite” e le nuove “dimensioni inquietanti” delle minacce alla vita? La vita umana si è vista sempre circondata da pericoli, minacciata di violenza e di morte. Però oggi, non si tratta solo di minacce che provengono dall’esterno, dalle forze della natura o dai “Caino” che assassinano gli “Abele”. Oggi le minacce alla vita vengono addirittura programmate in forma sistematica e scientifica, socialmente giustificata e legalmente regolata.
C’è la violenza esercitata contro milioni di esseri umani che sono sotto la soglia della povertà e muoiono di fame, il commercio scandaloso di armi che continua nonostante tante denunce, gli squilibri economici, lo sfruttamento del lavoro a scapito della vita, e le tante “strutture di peccato” che sono tali perché coscientemente e volutamente offendono la vita umana. A volte si arriva al punto di considerare espressione di progresso e di civiltà la morte richiesta, provocata o data violentemente, come nel caso di aborto ed eutanasia. Dalle sue fasi iniziali fino ai momenti terminali la vita umana soffre l’incomprensibile assedio degli esseri umani stessi.
Interpellati da Dio amante della vita
Di fronte a tale realtà non possiamo rimanere indifferenti come uomini, come cristiani e come membri della Famiglia Orionina, animata dall’umanesimo cristiano, che Don Orione ha vissuto e ha trasmesso come preziosa eredità. È un umanesimo che ci fa valorizzare, difendere e sviluppare tutto il positivo presente nella vita delle persone, nelle cose e nella storia, credere nella forza del bene ed impegnarci a promuoverlo più che a lamentarci del male, amare la vita e tutti i valori umani che in essa si incontrano
Dobbiamo sentirci interpellati dal Dio amante della vita. Se la vita umana sgorga dallo Spirito stesso di Dio, se è soffio divino, se siamo stati creati a sua immagine e somiglianza, necessariamente sulla nostra esistenza aleggia l’amore divino. Dio ama tutti gli esseri. Non può odiare nulla di quanto ha creato amorosamente.
Contro ciò che possono pensare coloro che vivono con l’oscura convinzione che Dio costituisca una minaccia per l’essere umano ed una presenza opprimente, che occorre eliminare per vivere e godere più pienamente dell’esistenza, noi vogliamo proclamare la nostra fede in Dio come il miglior amico dell’uomo e il difensore più sicuro della sua vita. “Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato – scrive l’autore del libro della Sapienza -; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata. E come potrebbe sussistere una cosa, se tu non volessi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte sono tue, Signore, amante della vita; poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose” (Sap 11,24-12,2).
Papa Benedetto XVI avverte che “La vita umana è una relazione. Solo in relazione, non chiusi in noi stessi, possiamo avere la vita. E la relazione fondamentale è la relazione col Creatore, altrimenti le altre relazioni sono fragili. Scegliere Dio, quindi: questo è essenziale. Un mondo vuoto di Dio, un mondo che ha dimenticato Dio, perde la vita e cade in una cultura di morte. Scegliere la vita, fare l’opzione per la vita, quindi, è, innanzitutto, scegliere l’opzione-relazione con Dio”.
È l’amore di Dio che ci spinge ad amare la vita, a promuoverla con un servizio responsabile, a difenderla con speranza, ad annunciarne il valore ed il senso, specialmente ai più deboli e indifesi, a quanti vanno alla deriva tra il vuoto e l’inquietudine.
Il Vangelo della vita
La Chiesa ha ricevuto il vangelo della vita ed è mandata ad annunciarlo ed a farlo divenire realtà. Tale vocazione e missione richiede l’azione generosa di tutti i suoi membri, anche della Famiglia Orionina. “Tutti insieme sentiamo il dovere di annunciare il Vangelo della vita, di celebrarlo nella liturgia e nell’intera esistenza, di servirlo con le diverse iniziative e strutture di sostegno e di promozione”.
Di fronte a tante solenni proclamazioni a favore della vita, che coesistono accanto a profondi atteggiamenti anti-vita, il nostro servizio deve testimoniarne ed annunciarne il valore, impegnarsi a difenderla ed a promuovere un’autentica cultura della vita.
In aiuto alla vita dei deboli
Preziosa e degna di rispetto è ogni vita umana. Ne consegue che si giustifica non solo la vita sana, utile, felice, ma anche la vita debole, la vita nel dolore e nella malattia, quella del bambino non ancora nato e quella dell’anziano invalido. Non solo è preziosa la vita dei potenti; lo è anche la vita dei poveri, degli abbandonati, dei deboli.
Come Chiesa, come figli e figlie di Don Orione ci sentiamo particolarmente chiamati a proteggere e prenderci cura della vita debole. Che oltre il 55% delle istituzioni sanitarie-assistenziali in Europa sia gestito da istituzioni cristiane è un indice che il cristianesimo è vivo.
Ma c’è una sfida da vincere. Don Orione la riassumeva così: “dobbiamo passare dalle opere di carità alla carità delle opere”. Il discorso è immediatamente chiaro: la qualità di “charitas” (comunione di Dio) – che equivale alla qualità di “humanitas” – determina la qualità delle istituzioni caritative. Solo se sono vivificate dalla carità le nostre opere di aiuto alla vita – personale, familiare e istituzionale – possono essere “fari di fede e di civiltà”.
L’AIUTO ALLA VITA DEBOLE IN UN CONTESTO
DI SECOLARIZZAZIONE DELL’ASSISTENZA
La sfida di “passare dalle opere di carità alla carità delle opere” affinché esse siano “fari di fede e di civiltà” oggi si colloca entro un contesto di secolarizzazione e laicizzazione dell’assistenza.
1) La laicizzazione dell’assistenza (nota storica)
Fino all’ultimo decennio del 1700, le opere di assistenza erano praticamente riservate all’attività caritativa della Chiesa, svolte soprattutto tramite le congregazioni religiose, le confraternite e altre istituzioni di ispirazione o di appartenenza ecclesiastica.
Con la rivoluzione francese la laicizzazione dell’assistenza diventava un cardine del programma politico-sociale. Con la nazionalizzazione del patrimonio ecclesiastico (1790), con la soppressione degli Ordini religiosi (1792) e con la nazionalizzazione degli ospedali (1793) la Chiesa perdeva in Francia e successivamente in Europa e nelle Americhe gli strumenti che per secoli le erano serviti per fare carità. Non solo religiosi e preti vennero allontanati dai centri di assistenza o dai posti di responsabilità, ma gradualmente, a partire dal quarto decennio dell’ottocento, i governi non tolleravano obiettivi di tipo religioso nell’assistenza ai poveri.
La Chiesa ne guadagnò in libertà, anche se con più difficoltà di reperimento di risorse: fatto di cui rallegrarsi.
Crebbe il protagonismo statale nel campo dell’assistenza, visto come dovere e compito di giustizia politica: altro fatto di cui rallegrarsi.
L’assistenza statale si fece fortemente ideologizzata culturalmente (secondo obiettivi, valori e persone dominanti) ed economicamente (aiuto economico subordinato agli obiettivi dominanti): di questo fenomeno, in parte inevitabile, c’è un po’ meno da rallegrarsi.
L’assistenza come impresa privata di lucro e investimento economico costituisce l’ultima e attuale fase della laicizzazione della assistenza. Ma prima di parlarne vorrei soffermarmi su un capitolo interessante ed esemplare del rapporto avuto da Don Orione con l’assistenza statale e laica.
2) Come si mosse Don Orione a Messina e nella Marsica (nota orionina)
Don Orione ebbe a confrontarsi con l’evoluzione dell’assistenza che divenne sempre più laica. Nell’aiuto alle popolazioni del terremoto calabro-siculo (1908-1912) e della Marsica (1915) egli fece esperienza che la solidarietà e l’assistenza non erano un campo di attività riservato alla Chiesa o prevalentemente svolto da istituzioni religiose. Alla secolarizzazione della società era seguita, sia pure con un certo ritardo, la secolarizzazione o laicizzazione dell’assistenza sociale.
Sulle macerie delle città distrutte, Don Orione incontrò le attività del Patronato “Regina Elena”, un’istituzione umanitaria laica sotto l’egida della Casa reale e con presidente la contessa Gabriella Spalletti Rasponi. Il Ministero degli Interni aveva i propri funzionari incaricati dei soccorsi, il prefetto Trinchieri a Messina ed Ernesto Campese ad Avezzano. A portare aiuti giunsero organismi laici del tutto estranei – e qualche volta in militante contrasto – con le motivazioni religiose. Il nostro fondatore entrò in contatto con l’Associazione Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia che raccoglieva il fior fiore delle personalità della cultura italiana (Zanotti-Bianco, Gallarati Scotti, Von Hughel, Franchetti), associazioni protestanti e massoniche.
Insomma, Don Orione trovò una realtà di assistenza molto laica e diversificata, dove l’assistenza religiosa era una tra le tante, tanto che Pio X gli disse: “Ti farai due volte il segno della croce, e poi va dalla Spalletti e portagli via gli orfani” . Ebbene, Don Orione non solo prese a collaborare alacremente e “da sacerdote” con tutte le persone in campo, ma divenne il loro riferimento morale. Divenne il primo collaboratore della Spalletti al punto che poi Pio X gli fece i complimenti: “Lei è diventato il primo santo del calendario della Spalletti”. E Don Orione commentò: “L’espressione mi fece tremare perché la Spalletti ha pochi santi cattolici nel suo calendario”.
Don Orione fu addirittura nominato Vice-Presidente del laicissimo Patronato Regina Elena sia a Messina che, poi, nella Marsica. Strinse con lo Stato una collaborazione intensa. A Messina, si attirò non pochi guai e opposti sospetti per la sua frequentazione con esponenti del pensiero modernistico. Divenne il coordinatore del soccorso proveniente dal mondo ecclesiale, fu il referente della carità del Papa, mobilitò numerose congregazioni religiose nell’aiuto a chi aveva perso tutto, nell’assistenza a feriti, nell’educazione di orfani. Pio X lo nominò Vicario generale di Messina ove rimase per ben 3 anni.
Quanto Don Orione fece in quel contesto di Messina e della Marsica ha qualcosa da dire anche oggi. Ci parla di coraggio e di intraprendenza, di dialogo con tutti e di identità irrinunciabile, del dinamismo laico e religioso del “fare del bene sempre, del bene a tutti, del male mai, a nessuno”.
3) Assistenza profit, non profit, volontaria… e missionaria (nota di attualità)
L’assistenza, rispetto a quei tempi di Don Orione, è andata sempre più secolarizzandosi. E’ sempre meno una missione realizzata per motivi religiosi. Al protagonismo statale nel campo dell’assistenza, sviluppatosi sempre più nelle nazioni a forma democratica, oggi si è aggiunto il protagonismo “privato”. Nel campo dell’assistenza, oggi, sono impegnate tre nuove grosse colonne di protagonisti “privati”:
1) le imprese profit che fanno del servizio assistenziale una fonte di guadagno gestendo il denaro destinato all’assistenza dai singoli cittadini o dallo Stato; La qualità dei servizi e di umanità di queste forme di assistenza è fortemente condizionata dalle leggi del profitto. Generalmente sono imprese che prescindono da aspetti e finalità etiche e religiose, pur tenendone conto a volte nel quadro del marketing e dell’appetibilità dell’impresa.
2) le imprese non profit spesso sono caratterizzate da motivazioni etiche e di solidarietà; non perseguono utili di bilancio, però trattengono dal servizio assistenziale quanto serve per la struttura e per le persone dell’impresa.
3) il volontariato, associato e individuale, autonomo o a sostegno di altre istituzioni assistenziali; il volontariato è tale quando avviene nella assoluta gratuità.
4) “Farci il segno della croce e buttarci nel fuoco dei tempi nuovi”
In questo contesto di secolarizzazione della solidarietà, noi religiosi, e laici mossi da motivazioni religiose, soffriamo un poco di crisi di identità che si trasforma a volte in crisi di inutilità: che ci stiamo a fare se tocca allo Stato o ci pensano già i privati? Soluzioni di “rientro in chiesa e in sacrestia” (“dedichiamoci a fare i preti”) appaiono sempre più giustificate. Oggi, la secolarizzazione della carità, da una parte, e le urgenze della pastorale, dall’altra, fanno pensare che i tempi sono cambiati e che è ora che preti, religiosi e anche “laici impegnati” si dedichino alla pastorale nelle parrocchie, alla formazione spirituale e lascino allo Stato e alle imprese private le opere educative e assistenziali.
Questa giustificazione – che forse si potrebbe meglio chiamare tentazione – tocca anche da noi Orionini, che siamo per definizione “preti di stola e di lavoro”, con “spiritualità dalle maniche rimboccate”, cioè incarnata, “santi della Chiesa e della salute sociale”.
Il Magistero della Chiesa ribadisce che “la Chiesa non può trascurare il servizio della carità così come non può tralasciare i Sacramenti e la Parola” (Deus caritas est 22) perché c’è “un felice legame tra evangelizzazione e opere di carità” (Deus caritas est 30) e “servire i poveri è atto di evangelizzazione” (Vita consecrata 82).
“La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza” (Deus caritas est 25a).
“Le organizzazioni caritative della Chiesa costituiscono invece un suo opus proprium, un compito a lei congeniale, nel quale essa non collabora collateralmente, ma agisce come soggetto direttamente responsabile, facendo quello che corrisponde alla sua natura. La Chiesa non può mai essere dispensata dall’esercizio della carità come attività organizzata dei credenti” (Deus caritas est 29)
Don Orione, in tempi passati, le Costituzioni e i Capitoli generali recenti ci hanno dato indicazioni perché preti, religiosi e laici facciano apostolato mediante le opere di carità”.
La secolarizzazione dell’assistenza è un fatto con cui dobbiamo confrontarci. Don Orione direbbe che dobbiamo “farci il segno della croce e buttarci nel fuoco dei tempi nuovi per l’amore a Gesù Cristo, al popolo, e anche per l’amore al Paese”, come egli fece di fronte ai fenomeni della democrazia, della questione operaia, dei nuovi mezzi e della modernità da “battezzare in Cristo”.
Nei confronti della secolarizzazione dell’assistenza, si tratta di superare atteggiamenti sia di “squalifica”, sia di “soggezione” (senso di inferiorità) e sia di “auto-emarginazione” nei confronti degli agenti laici, pubblici e privati.
Riflettendo su questo tema e guardando a Don Orione, mi pare utile indicare tre principali dinamismi che devono stare alla base della azione caritativa in aiuto alla vita debole nell’attuale contesto sociale.
I TRE DINAMISMI
DELLE OPERE “FARI DI FEDE E DI CIVILTÀ”
1. Dinamica spirituale
Don Orione è un santo, cioè un uomo di Dio. Un atto di fede guida e sostiene l’impegno di solidarietà e l’aiuto verso i più deboli e svantaggiati della società: essi sono i prediletti di Dio. “Iddio ama tutte quante le sue creature, ma la sua Provvidenza non può non prediligere i miseri, gli afflitti, gli orfani, gli infermi, i tribolati d’ogni maniera, dopo che Gesù li elevò all’onore di suoi fratelli (…) L’occhio della Divina Provvidenza è, in special modo, rivolto alle creature più sventurate e derelitte” (Lettere II, p.224).
Questo dinamismo potrebbe essere riassunto nella nota espressione di Don Orione: “Vedere e servire Cristo nell’uomo”. Prima dell’azione verso chi ha bisogno di cura, in Don Orione scatta la contemplazione della “imago Dei”, per cui i il “servizio” al prossimo e il “culto” a Dio risultano non avere più dei confini tanto netti e separati, anzi si implicano e rafforzano reciprocamente.
Don Ignazio Terzi, nei suoi ricordi personali su Don Orione, ha annotato di aver visto in lui lo stesso senso di adorazione di fronte all’Eucarestia, di fronte ai Vescovi e davanti ai Poveri.
I poveri, i disabili, i “rottami della società” erano da Don Orione chiamati, senza retorica, “i nostri tesori”, le nostre “perle”, i nostri “padroni” (il padrone di casa: nome riservato anche a Gesù-eucarestia!). “I nostri cari poveri… non sono ospiti, non sono dei ricoverati, ma sono dei padroni, e noi loro servi, così si serve il Signore”.
Don Orione ha del povero un concetto molto realistico – da maniche rimboccate, senza voli poetici e sentimentali – e contemporaneamente una visione quasi sacra (“nel più misero del fratello brilla l’immagine di Dio”, “vedere e servire Cristo nell’uomo”, “chi dà al povero dà a Dio”). «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli – assicura Gesù -, l’avete fatto a me » (Mt 25, 40).
“Se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita – osserva Benedetto XVI -, posso vedere nell’altro sempre soltanto l’altro e non riesco a riconoscere in lui l’immagine divina” (Deus caritas est 18).
Nel servizio alle persone provate dal dolore, occorre alimentare la coscienza che lì, in quella vita, c’è un segno speciale di Dio, della sua Provvidenza, del valore assoluto della vita. Questo suggerisce e rinnova atteggiamenti di grande rispetto, di vero servizio (dare loro il meglio!), di vera relazione, un “dare e ricevere”.
“Tante volte ho come intravisto Gesù, nei più reietti e più infelici”, affermò Don Orione fuori da metafore. Viene da pensare alla contemplazione di Michelangelo che “vedeva” il Mosè dentro il masso informe di marmo e la sua azione era rivolta – e sostenuta nella fatica – a “tirarlo fuori”, a farlo emergere. L’azione di aiuto, nei suoi diversi momenti e ambiti, ha sempre bisogno di contemplazione, di visione dell’imago Dei dentro un corpo nascente, limitato o in diminuzione. Solo così si supera il materialismo e la mancanza di sentimenti nel servizio di routine alla persona debole e bisognosa.
Sviluppare la “presenza divina nell’uomo”, restaurare, esprimere la “presenza divina nell’uomo”, radice ultima della dignità di ogni persona: questo è il nobile motivo dell’agire in aiuto di chi è debole e bisognoso di sostegno. Di qui derivano gli atteggiamenti di autentico rispetto, di cura, di devozione, di intraprendenza nel bene.
Perciò, l’aiuto alla persona non è solo questione di tecniche e di metodologie; è questione di relazione, di amore che mette al centro la persona e il suo sviluppo integrale: spirito, mente e cuore. “Io non vi raccomando le macchine – scriveva in riferimento a un istituto educativo – vi raccomando le anime dei giovani, la loro formazione morale, cattolica e intellettuale. Curatene lo spirito, coltivate la loro mente, educate il loro cuore!”.
La personalizzazione dei servizi, che oggi guida la logica degli interventi di aiuto, non chiede solo l’adeguamento dei servizi alla persona, ma chiede che essi promuovano la persona nella sua originalità e nelle sue potenzialità fisiche, psichiche, affettive e spirituali.
2. Dinamica civile
Chi conosce Don Orione, la sua visione aperta, il suo senso del popolo e della società, sa che intendeva le opere di carità come uno strumento più che uno scopo, un veicolo più che un traguardo. Le concepiva come opere “fermento”, opere “sale” nella società, opere che parlano della Provvidenza di Dio e fanno lievitare di umanità il vivere civile, i costumi, la cultura.
Un’opera di carità non è da Don Orione concepita e modellata solo in funzione dei suoi ospiti, ma guardando alla città. “Il Piccolo Cottolengo di Genova – annunciava – diventerà la ‘cittadella spirituale di Genova’. Altro che la lanterna che sta sullo scoglio! Il Piccolo Cottolengo sarà un faro gigantesco che spanderà la sua luce e il suo calore di carità spirituale anche oltre Genova e oltre l’Italia” (LI 53, 7).
Questo sarà possibile se al Piccolo Cottolengo come in ogni altra opera di carità al servizio della vita debole ci sarà al suo interno luce, cioè qualità di vita, fede, amore fraterno, vita bella, ma anche se avrà dinamiche di relazione con la città, con persone e luoghi che costituisco il tessuto civile di cui l’opera è parte e a cui in fine ultimo è destinata.
Carità e annuncio, carità e cultura, carità e politica si richiamano a vicenda. In realtà, se un’opera si chiude in se stessa e non viene conociuta, se non si comunica favorendo relazioni con famiglie, amici, parrocchie, organismi laici, società civile… è come non esistesse, perde la dinamica propria del “faro” che proietta luce fuori, lontano.
Oltre a fare il bene, è necessario dunque trovare il linguaggio per raccontarlo al mondo, certo con giusto pudore nei riguardi di noi stessi e con grande delicatezza nei riguardi di chi riceve il bene, ma anche con convinzione e decisione, mettendo al centro il povero e l’esperienza di vita nuova e di nuova civiltà sviluppata a partire dai più deboli e dalla legge del servire e dell’amare.
Credo sia da insistere su questo significato e dinamismo civile delle istituzioni di aiuto alla vita debole. In un certo senso, non è carità vera quella di un’opera che non si racconta, che non è visitata da nessuno, che non viene capita né spiegata all’uomo d’oggi. Se l’opera non è anche notizia, “buona novella”, esperienza e annuncio di civiltà– “faro di civiltà”, per dirla con Don Orione – mancherebbe di raggiungere pienamente il suo scopo di “ricostituente sociale”, di energetico alla nostra società spesso debole.
È la dinamica – umile e potente – che Gesù ha annunciato quando ha detto: “Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perchè faccia luce a tutti quelli che sono nella casa” (Mt 5, 15). Questo per tutti, per tutti sociale, questo “fuori di sacrestia” è tipico di Don Orione è congiunge fede in Dio, carità verso il prossimo, passione sociale: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perchè vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 16).
Presso la Colonia agricola di Cuneo, Don Orione volle anche un gruppo di orfanelli, non ancora in età di lavoro, ma che si sarebbero preparati ad essere utili nella società. Scriveva sul Bollettino: “Per chi ancora non ci conosce, è pur bene che si sappia che la nostra non è solo opera di fede e di beneficenza, e che l’Istituto di Cuneo non è un semplice ricovero di orfani, ma vuol essere – anche e più – opera di utilità pubblica e sociale”.
Nel 1908, Don Orione aprì una parrocchia in Roma, “nella Patagonia fuori Porta San Giovanni ove c’è tutto da fare”, come gli disse Pio X. Quest’anno è il centenario della parrocchia di Ognissanti. Don Orione viene ricordato con un campanello in mano e caramelle nell’altra circondato da ragazzi, la messa nella rimessa di cavalli e altri fioretti. Ma è interessante vedere come imposta le attività: a quelle di culto affianca quelle di assistenza sociale. A don Giuseppe Adaglio – che doveva predisporre i locali – raccomandava di “non richiuderci solo fra la Chiesa e l’ Oratorio festivo” e dava un elenco delle varie attività.
Scrive al Provinciale del Brasile circa l’azione di un confratello parroco a San Paolo: “Bisogna fare, bisogna fare bene, bisogna fare di più a S. Paulo, molto, ma molto di più.! Perciò voglio che don Mario (Ghiglione) non si rannicchi, che non si chiuda in se stesso, né che si limiti alle funzioni di chiesa. Deve buttar via quella specie di coniglismo che lo fa sacerdote non completo, ma anzi difettoso. Non gli dico di non aver prudenza, ma voglio e gli chiedo di avere più spirito, di avere più attività sociale. E se è parroco, faccia da parroco, non solo in chiesa, ma anche nella vita sociale della parrocchia; si metta fuori, compia la sua missione anche fuori e si faccia conoscere, stando sacerdote e religioso ed edificando tutti”.
Occorre un serio rapporto con lo Stato e la sua legislazione. Negli oltre 30 Paesi in cui siamo presenti, siamo chiamati ad assumere e interpretare le leggi secondo il nostro spirito e finalità, e contribuire a correggerle e promuoverle coraggiosamente. Oggi si parla della dimensione culturale e politica della carità, di “testimonianza profetica e silenziosa, ma insieme eloquente protesta contro un mondo disumano” (Ripartire da Cristo 33). A tale scopo dobbiamo fare rete e collaborare tra di noi e con altre istituzioni di ispirazione cristiana. Don Orione non aveva paura di accettare i sussidi dello Stato o di coinvolgere i responsabili civili nelle sue strutture e imprese di bene, pur gelosissimo della libertà di impostazione e della qualità cristiana del servizio. Sapeva anche intervenire, suggerire o criticare a livello politico.
Inoltre va vissuto un attento confronto con tutte le istituzioni di assistenza. Può venirne beneficio per migliorare la qualità del servizio. Don Orione sapeva assumere e “imparare” metodi e mezzi nel campo assistenziale ed educativo che venivano dal mondo laico. “Anche quelle forme, quelle usanze che a noi possono sembrare troppo laiche, rispettiamole, e adottiamole, occorrendo, senza scrupoli, senza piccolezza di testa: salvare la sostanza bisogna! Questo è il tutto. I tempi corrono velocemente, e sono alquanto cambiati e noi, in tutto che non tocca la morale, la dottrina e la vita cristiana e della Chiesa, dobbiamo andare e camminare coi tempi e camminare alla testa dei tempi e dei popoli, e non alla coda”.
Nel rapporto con istituzioni laiche e secolari Don Orione non temeva di inquinarsi, anzi, vedeva una possibilità di mettervi il buon fermento del Vangelo. Era la carità che trasformava i rapporti con i poveri e con quanti s’occupavano dei poveri e le sue case diventavano per questo “fari di fede e di civiltà”.
3. Dinamica apostolica
Per Don Orione e per l’Orionino, apostolato significa “dare col pane del corpo, il divino balsamo della Fede” o, fuori di simbologia, “portare i piccoli, i poveri, il popolo alla Chiesa e al Papa, per instaurare omnia in Christo, e ciò mediante le opere di carità”. Il dolore, le miserie, le sofferenze sanate, consolate, amate sono un segno che manifesta la presenza provvidente di Dio, che “ha creato l’uomo per la vita” e vuole che i suoi figli “abbiano vita e l’abbiano in sovrabbondanza”.
E’ stato il modo con cui Gesù ha rivelato il Padre e compiuto la sua missione: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11,4-5).
“Dopo questi fatti… una gran folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. Allora (dopo la moltiplicazione dei pani) la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!” (Gv 6,2-14).
Riassumendo questa dinamica apostolica cristiana, Evangelium vitae 2 afferma: “Il Vangelo dell’amore di Dio per l’uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo”.
Don Orione, che è stato un buon cristiano, ha seguito l’esempio di Gesù, ha fatto il prete, ha evangelizzato mediante atteggiamenti e azioni di carità verso i piccoli, i poveri, gli ultimi.
Opportunamente, Giovanni Paolo II – riprendendo una espressione di Papa Luciani – lo ha definito “lo stratega della carità”, perché le opere di misericordia costituivano la strategia apostolica sua e del suo piccolo “esercito della carità”.
Ascoltiamo alcuni passaggi della catechesi spicciola di Don Orione sul valore apostolico della carità.
“Apriamo a molte genti un mondo nuovo e divino; pieghiamoci con caritatevole dolcezza alla comprensione dei piccoli, dei poveri, degli umili”.
“Il popolo vuol vedere la realtà. Non è quindi solamente il prete con la stola al collo che può fare del bene, ma anche il prete che lavora”.
“Cercare e medicare le piaghe del popolo, cercarne le infermità: andargli incontro nel morale e nel materiale. In questo modo la nostra azione sarà non solamente efficace, ma profondamente cristiana e salvatrice. Cristo andò al popolo. Sollevare il popolo, mitigarne i dolori, risanarlo. Deve starci a cuore il popolo. L’Opera della Divina Provvidenza è pel popolo. Evitate le parole: di parolai ne abbiamo piene le tasche”.
Occorre fare almeno un accenno al rapporto tra carità e annuncio di Cristo, tra servizio e fede. Un servizio funzionale al proselitismo? Un servizio che prescinde dalla fede?
Benedetto XVI risponde a chi pensa che “l’azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l’uomo. Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza. Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore” (Deus caritas est 31c).
Viene da ricordare un fatto simbolico cui Don Orione diede rilevanza per far capire il dinamismo proprio della carità che congiunge servizio e annuncio di fede. Raccontò la conversione di una anziana donna convertita al Piccolo Cottolengo di Claypole, la quale spiegò: “come posso non credere alla fede e alla religione della Suora che dorme per terra vicino al mio letto e che si leva 20-30 volte ogni notte per darmi da bere e per servirmi… più che fosse mia figlia? (…) Vedete? – concludeva Don Orione -, quella donna è stata spinta alla fede dalla carità sovrumana della suora”.
La sua catechesi era semplice: “Siamo in tempi in cui se vedono il prete solo con la stola non tutti ci vengono addietro, ma se invece vedono attorno alla veste del prete i vecchi e gli orfani allora si trascina… la carità trascina… La carità muove e porta alla fede e alla speranza. Tanti non sanno capire l’opera di culto e allora bisognerà unire l’opera di carità”.
“Salvatore Sommariva mi ha detto: Non credevo in Dio, ma ora ci credo perché l’ho visto alle porte del Cottolengo”. Ciò corrisponte e quanto affermava Sant’Agostino ”Se vedi la carità, vedi la Trinità”, ricordato da Benedetto XVI in Deus caritas est 19.
A Don Adaglio, dava direttive per l’avvio della Piccola Opera in Palestina: “Se si vuole mantenere cattolico un paese o renderlo cattolico, la via più breve e più sicura è di prendere la cura degli orfani e della gioventù povera e creare opere, opere, opere di carità. Bisogna che su ogni nostro passo si crei e fiorisca un’opera di fraternità, di umanità, di carità purissima e santissima, degna di figli della Chiesa nata e sgorgata dal Cuore di Gesù: opere di cuore e di carità cristiana ci vogliono. E tutti vi crederanno! La carità apre gli occhi alla Fede e riscalda i cuori d’amore verso Dio”.
Don Terzi ha raccontato che, ancora laico, faceva parte di un gruppetto di giovani universitari accompagnati da Don Orione in visita al Paverano. Don Orione, dopo averli lasciati per intrattenersi con alcune persone distinte della città, disse loro: “Vedete questa opera è certamente per questi poveri che vi sono ospitati, ma, vorrei dire ancor più, è per quelli là, perché vedano e apprendano la carità e si avvicinino a Dio”.
CONCLUSIONE
Concludo questi richiami alle dinamiche che rendono “fari di fede e di civiltà” l’aiuto alla vita debole, ricordando che esse vanno strutturate in nuove modalità di conduzione delle opere di carità da parte degli organismi della Chiesa e delle nostre comunità religiose. È una sfida grande. Da vincere. Queste nuove modalità di conduzione delle opere caritative cattoliche, nelle mutate condizioni sociali e normative, è stato oggetto della recente Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio “Cor unum”. Al termine dell’Assemblea Benedetto XVI ha riassunto la sfida trasformandola in un mandato spirituale e organizzativo: “L’aiuto che la Chiesa offre non deve mai ridursi a gesto filantropico, ma deve essere tangibile espressione dell’amore evangelico”.
E’ questa una linea centrale del cammino della congregazione dei Figli della Divina Provvidenza nel sessennio 2004-2010 e delle Piccole Suore Missionarie della Carità impegnate a elaborare e impiantare nuovi modelli delle comunità apostoliche.
“Essere tangibile espressione dell’amore evangelico”: “Si spiegano così le grandi strutture di accoglienza, di ricovero e di cura sorte accanto ai monasteri. Si spiegano pure le ingenti iniziative di promozione umana e di formazione cristiana, destinate innanzitutto ai più poveri, di cui si sono fatti carico dapprima gli Ordini monastici e mendicanti e poi i vari Istituti religiosi maschili e femminili, lungo tutta la storia della Chiesa. Figure di Santi come Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola, Giovanni di Dio, Camillo de Lellis, Vincenzo de’ Paoli, Luisa de Marillac, Giuseppe B. Cottolengo, Giovanni Bosco, Luigi Orione, Teresa di Calcutta — per fare solo alcuni nomi — rimangono modelli insigni di carità sociale per tutti gli uomini di buona volontà. I santi sono i veri portatori di luce all’interno della storia, perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore”.
Uomini e donne, persone e istituzioni che vivono la “carità sociale” sono veramente “fari di fede e di civiltà”.