Los Desamparados

Don Orione trascorse in Argentina alcuni periodi dal 1934 al 1937. In questo tempo incominciò a parlare e a scrivere qualcosa in spagnolo volendo farsi “argentino fra gli argentini”; anche in alcuni discorsi e scritti successivi ricorrono alcune espressioni in lingua spagnola. In particolare usò frequentemente la parola “los desamparados”. Ed è proprio da questo termine e dalla sua rilettura esistenziale che oggi proviamo a raccontare qualcosa del metodo di relazione di aiuto e di cura denominato “QdV – Qualità della Vita”.

 

In una lettera scritta a Buenos Aires il 13 aprile 1935, Don Orione dice che il Piccolo Cottolengo è «una umilissima Opera di fede e di carità, che ha suo scopo di dare asilo, pane e conforto a los desamparados, agli abbandonati, che non hanno potuto trovare aiuto e ricovero presso altre Istituzioni di beneficenza. L’Opera trae vita e spirito dalla carità di Cristo e suo nome da San Giuseppe Benedetto Cottolengo, che fu Apostolo e Padre dei poveri più infelici. La porta del Piccolo Cottolengo non domanderà a chi entra se abbia un nome, ma soltanto se abbia un dolore. “ Charitas Christi urget nos ” (II Cor., IV). Quante benedizioni avranno da Dio e dai nostri cari poveri quei generosi, che ci daranno aiuto a sollevare tante miserie, a lenire i dolori di quelli che sono come il rifiuto della società! (…) Il Piccolo Cottolengo terrà la porta sempre aperta a qualunque specie di miseria morale o materiale. Ai disingannati, agli afflitti della vita darà conforto e luce di fede. Distinti poi in tante diverse famiglie, accoglierà, come fratelli, i ciechi, i sordomuti, i deficienti, gli ebeti; storpi, epilettici, vecchi cadenti o inabili ai lavoro, ragazzi scrofolosi, malati cronici, bambini e bambine da pochi anni in su; fanciulle nell’età dei pericoli: tutti quelli, insomma, che, per uno o altro motivo, hanno bisogno di assistenza, di aiuto, ma che non possono essere ricevuti negli ospedali o ricoveri, e che siano veramente abbandonati: di qualunque nazionalità sia-no, di qualunque religione siano, anche se fossero senza religione: Dio è Padre di tutti!» (Don Orione, Lettere, n. 064 del 13 aprile 1935.)

Don Orione scrive e comunica che ha aperto i Piccoli Cottolengo per i desamparados, per coloro che “per uno o altro motivo” sono stati privati dell’amparo, della protezione della casa, casa naturalmente intesa nel significato più ampio e profondo di dimora non solo materiale ma affettiva e relazionale della persona.

La persona con disabilità vive in una Casa del Piccolo Cottolengo perché ha dovuto lasciare la sua di casa o perché una casa non l’ha mai avuta. In ogni caso, insomma, è un desamparado. Ma senza casa non significa solo, naturalmente, senza le quattro mura natie. Casa sono anche le quattro mura ma anche e soprattutto casa sono le relazioni di cui è intessuta l’identità di me.

Usiamo anche noi questa espressione: mi sono sentito a casa, nel senso, di accolto, nel senso di mi sono sentito bene. La casa è il luogo delle relazioni buone, è il luogo che vuole tenere fuori il male, la giungla, il luogo delle relazioni cattive, di prepotenza e di prevaricazione del forte sul debole, del sano sul malato, dell’operatore sull’ospite – perché anche con un “lo faccio per il suo bene o glielo vieto per il suo bene” un operatore può, suo malgrado e senza volerlo, prevaricare un suo simile. La casa è il mondo come Dio l’aveva pensato e offerto alla libertà dell’uomo – perché l’ha pensato e offerto non ad un burattino ma ad un uomo, non ad uno schiavo ma ad un figlio. La casa è il luogo del bene, delle relazioni buone, il luogo di una civiltà che con l’amore – I care – ricostruisce ogni giorno ciò che il male ed il peccato distruggono: è un pezzetto dell’instaurare omnia in Christo.

Nelle storie di vita di tante amiche che vivono nel Piccolo Cottolengo c’è spesso questa costante: la nostalgia di casa (se la casa un tempo c’era e ora non c’è più) o il desiderio di tornarci (se la casa c’è ancora e con i propri cari viventi ma non può più accoglierle). Anche la nuova famiglia che si forma dove vivono – tra le quattro mura dove vivono, “il reparto” come recita una triste consuetudine dura a morire – con relazioni buone tra loro e operatrici e operatori, non cancella mai questa nostalgia o questo desiderio. Non lo cancella ma lo accoglie e lo abbraccia, senza la pretesa utopica di eliminarlo; ma al tempo stesso ricostruendo ogni giorno nella relazione e nella cura quell’amparo senza il quale la vita è disumana. Ma il passo decisivo è quando l’Operatore si accorge che mentre sta progettando e offrendo l’amparo all’Ospite, gli accade di realizzare anche il proprio amparo, e cioè la vita pienamente umana (perché senza prendersi cura di chi ha bisogno la vita diviene disumana).

Inestricabilmente, giorno per giorno, Operatori e Ospiti, insieme, si ritrovano ad essere, gli uni per gli altri, conditio sine qua non di quell’amparo che tutta la vita cerchiamo. Perché in senso proprio desamparados lo siamo tutti, non solo coloro che certo luogo comune chiama “i più sfortunati”, attingendo al linguaggio pagano che chiama fortuna e sfortuna il pregiudizio umano col quale si valuta ciò che ci accade. Noi tutti infatti – al di là dei soldi o della salute o dell’essere più o meno normodotati e di altre sicurezze che possiamo pensare di avere, al di là perfino della nostra “bontà” e del nostro sentirci “dalla parte giusta” – siamo desamparados.

 

La Qualità della Vita delle amiche e degli amici che vivono nelle nostre Case non è mai da dare per scontata, mai pensare di saperla già, solo perché magari da anni vivono al Piccolo Cottolengo. Essa è più da cercare che da inventare (a meno che, di quest’ultimo vocabolo, teniamo buono il significato etimologico).

La Qualità della Vita delle persone che vivono nelle nostre Case va progettata, con tanta osservazione e studio, come ogni ricerca richiede. Essa va insomma progettata e va progettata insieme. Insieme come una Compagnia che parte per una impresa, una Compagnia nella quale ciascuno ha un compito insostituibile (ciascuna ma proprio ciascuna figura professionale, nessuna esclusa) e nella quale ha poca utilità affermare chi conta di più, perché senza gli Hobbit perfino Gandalf e Aragorn sarebbero stati sconfitti, ma senza Gandalf e Aragorn gli Hobbit avrebbero fatto ben poca strada. È come una Quest: è un viaggio dentro la vita dell’Ospite fatto insieme a lui e insieme ai colleghi, alla ricerca di quella Perla che ognuno di noi cerca: la felicità, il bene finalmente. Ed è inevitabilmente un viaggio dentro sé stessi. È un viaggio tanto più complesso e delicato quanto più il fratello o la sorella che stiamo aiutando a cercare non è in grado di farlo da solo. Ma chi è in grado di fare da solo un viaggio così?

 

Davide Gandini