Mi lascio ridurre a pezzi per compiere le Opere di Carità nella Carità
Don Orione ha sempre voluto un gran bene ai genovesi. Li amò quali essi sono. “Io conosco il vostro cuore, il cuore dei genovesi, che nella scorza par rude, talora, ma è cuore più grande del mare”. “Miei buoni indimenticabili genovesi, avrete un fare un po’ fiero, ma poi un cuor d’oro, un cuore più grande del vostro mare”.
La “scorza” stava in quella loro fierezza di fare? Bene, li esorta a impiegarla con persistenza nel bene: “Non vi stancate di fare il bene”. Il “cuore”, invece, era d’oro e più grande del mare? Ecco, li esorta a tenerlo “sempre pieno di carità”, a “non impicciolirlo”, a “non inagrirlo mai, mai, sia pure con l’intenzione del bene”.
Il loro “fare” i genovesi lo esprimono con una fioritura di verbi transitivi, attivi, che vogliono come unico ausiliare il verbo avere e hanno come legge dominante la virtù della giustizia. Non li esorta a ridurre le loro molteplici attività; anzi, qualora le indirizzino al bene, li assicura di un forte incentivo: “Fin da questa vita avrete il cento per uno”.
Quanto alla “giustizia”, egli non suggerisce di soppesarla, ma di viverla come immersi in una atmosfera: “Vivete nella giustizia”. Qualcuno ritiene che, tutto dedito alle opere di misericordia, sottovaluti la giustizia. Invece la suppone sempre, a fondamento della stessa carità. Scrive Carlo Bo: “Nel suo fare carità, Don Orione non intendeva eliminare la parte dovuta alla giustizia”, inoltre il suo correre senza mai fermarsi era motivato dalla “speranza che un giorno la giustizia sappia liberare la carità dalla sua fatica disperata”.
Nota Douglas Hyde che in lui giustizia e carità si fondono in una sintesi, proponendosi egli una giustizia senz’odio e una carità che sia l’anima della giustizia e della pubblica assistenza. Il programma dettato dal Fondatore alla Piccola Opera della Divina Provvidenza recita: “Suo campo è la carità, però nulla esclude della verità e della giustizia, ma la verità e la giustizia fa nella carità”. Voleva anzi che la stessa carità fosse fatta nella carità.
Il 9 dicembre 1938, egli chiese ai coniugi Cavazzoni di sospendere l’annuale riunione degli Amici, che doveva tenersi all’università cattolica di Milano di lì a pochi giorni. Erano sorti dei turbamenti presso qualche ente locale di beneficenza, ed egli subito chiese di sospendere e rinviare il raduno. Poiché i Cavazzoni insistevano portando buone ragioni, li invitò a inginocchiarsi e a pregare insieme: “Preghiamo lo Spirito Santo di illuminarci”.
Finita la preghiera ripeté, più risoluto di prima: “No, sospendiamo la riunione: le opere di carità vanno fatte nella carità. Se, per difendere le mie opere, dovessi mancare di carità, sarei pronto a distruggerle”. Soggiungendo: “Io sono di marmo rispetto alla fede e alla speranza; ma mi lascio ridurre a brani, a pezzi, per compiere le opere di carità nella carità”.