Nell’infermità tu sei me
In una società complessa la vita si adegua ad essa e l’azione del visitare chi soffre mette in difficoltà. Talvolta, nel turbinio quotidiano degli impegni, sembriamo costretti ad affidare ad altri tale compito, magari per presunta maggiore capacità. Il rischio è l’inaridimento dei sentimenti e l’indifferenza o il rifiuto della sofferenza, considerato male da allontanare. Nella comunità credente viene meno qualcosa d’importante: il visitare come compito e opera di misericordia e spirituale richiesto dal Signore.
Una delle difficoltà incontrate davanti ad un malato è accettare che la sofferenza fa parte della sua come della nostra vita, ne è parte integrante. Non può essere rimossa, e sollecita domande fondamentali intorno al senso dell’esistenza, qualità della vita, dignità umana, verità sulle relazioni con cui prima o poi ci dovremo confrontare. Davanti all’infermità possiamo assumere due atteggiamenti: l’indifferenza, nell’illusione di poterla allontanare almeno da noi, o la compassione verso il prossimo, accompagnandolo con tutto l’amore possibile, nel breve o lungo periodo, anche fino al passaggio dalla vita terrena a quella eterna.
Ciò vuol dire assumere volontariamente un concreto impegno verso gli altri, superando i nostri limiti davanti alla sofferenza e attivando la propria coscienza affinché l’azione del visitare l’ammalato ne attenui fatica e sofferenza, aumentate talvolta dalla solitudine, dalla distanza fra lui e la vita di relazione. Per essere compassionevoli e aiutare chi soffre dobbiamo vincere la paura della nostra sofferenza, non illudendoci di poterla escludere, accettandone a priori la possibile impotenza. Il malato capisce la nostra compassione quando ci sente disarmati, al suo livello.
Risultato: malato e visitatore si sentono umanizzati interiormente. La relazione con chi soffre ci aiuta a parlare della sofferenza con maggior discernimento, a non considerarla un’occasione di protagonismo caritativo, né dialogo-incontro col quale imporre la propria visione e desideri. Ci aiuta ad essere più veri, piangendo senza vergogna i nostri limiti e vivendo con maggiore profondità certi atteggiamenti (una carezza, una stretta di mano, un bacio sulla fronte o sulla guancia) che diamo per scontati ma che, nel caso, sono fonte di consolazione e segno di una relazione di tenerezza. Il contatto fisico apre ad una accoglienza reciproca dove scompaiono le presunte distinzioni fra sofferenza aprendo profondi rapporti umani.
Concludendo possiamo dire d’essere beneficiari della relazione tra la nostra e l’altrui sofferenza. Quest’ultima, infatti, ci fa conoscere la nostra debolezza e fragilità, ma anche quanto amore può scaturire dall’avere accanto qualcuno che ci stia vicino nei momenti no della vita, in particolare nella sofferenza fisica e morale. Il nostro cuore viva delle parole di Don Orione quando incontriamo qualcuno che chiede soltanto un po’ del nostro tempo. “Vorrei farmi cibo spirituale per i miei fratelli che hanno fame e sete di verità e di Dio; vorrei vestire di Dio gli ignudi, dare la luce di Dio ai ciechi ed ai bramosi di maggior luce, aprire i cuori alle innumerevoli miserie umane e farmi servo dei servi distribuendo la mia vita ai più indigenti e derelitti; vorrei diventare lo stolto di Cristo e vivere e morire della stoltezza della carità per i miei fratelli! Amare sempre e dare la vita cantando l’Amore. Spogliarmi di tutto! (Don Orione)
don ivan concolato