Pasqua: dal pessimismo alla speranza
Il giorno stesso di Pasqua, alla sera, si legge il Vangelo dell’episodio dei due discepoli di Emmaus.
Ne possiamo fare anche una lettura simbolica e scorgervi la parabola della nostra vita che ci aiuta a comprendere e a dare un senso agli avvenimenti che si verificano nella nostra esistenza terrena.
Si inizia dicendo che i discepoli erano in cammino, in cammino da Gerusalemme verso Emmaus, un paese distante circa undici chilometri dalla città, ma significativo perché ricordava il luogo della vittoria di Giuda Maccabeo sui pagani, il luogo cioè della attesa della rivincita di Dio e della liberazione di Israele.
Questo cammino è chiaramente una fuga, una fuga tutto sommato da Gesù, dai luoghi e da ciò che sapeva di lui, da ciò che poteva ricordare il loro rapporto con lui. Si erano fidati di lui, egli però li aveva traditi con la sua morte. Non era vero che il Messia era lui, perché altrimenti non sarebbe morto ma avrebbe liberato il popolo dalla schiavitù romana.
“Seguimi” era stata la prima parola e il primo incontro con Gesù. Ma la sua passione e la morte in croce hanno posto fine a tutti i loro sogni, ora si stanno allontanando segnati dalla tristezza, dalla delusione e dallo scoraggiamento. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele, dicono sconsolati.
Chissà quante volte è capitato anche a noi di percorrere la strada verso Emmaus, quando gli avvenimenti cui abbiamo assistito o le prove che abbiamo attraversato ci lasciano disorientati e smarriti.
Quante volte abbiamo lamentato l’assenza di Dio o per lo meno il suo non intervento. È l’incapacità a scorgere in quei momenti la presenza del Risorto, ci sembra di essere rimasti soli ad affrontare le sofferenze, le malattie, le disgrazie, tutto inutile il lavoro fatto, gli sforzi, le preghiere, la fatica, la speranza. Inascoltati.
Capiamo molto bene la tristezza profonda di questi discepoli, che proprio per questo non sono in grado di riconoscere quello sconosciuto che si affianca a loro. Un po’ è perché il risorto è dotato di una corporeità nuova, di altro tipo rispetto alla nostra e a quella anche del Gesù pre-pasquale, ma è soprattutto questo blocco interiore che annebbia la loro fede.
Si fermarono col volto triste, noi speravamo che fosse lui a liberare Israele, dicono rassegnati. La delusione è troppo scottante, né vale la notizia del mancato ritrovamento del suo corpo nel sepolcro come dicono le donne, perché tanto lui non lo hanno visto neanche loro. Stanno davvero fuggendo per la disperazione, la loro chiaramente è una crisi di fede e di conseguenza anche di speranza. Era una resa.
Ma ecco che nel profondo di questa tristezza si accende una luce, c’è una parola che cala in profondità e man mano rischiara il cammino fatto e dà senso a tutte le cose che sono successe. «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Gesù si inserisce con pazienza nei loro ragionamenti, con la pazienza di chi si rende conto delle difficoltà dell’interlocutore. Sempre nella nostra vita il Signore agisce con benevolenza, mai con la violenza del divino che si impone a forza. Tutto bisogna leggere alla luce della fede e comprendere così che è Dio a guidare misteriosamente la storia umana, ma sempre per condurla a un fine buono. Anche la nostra storia personale.
Senza pretendere di sapere tutto e subito in anticipo, la parola di Dio ci aiuta a mettere insieme i pezzi di un puzzle di cui neppure ci accorgiamo. Chissà quante volte ce ne rendiamo conto alla fine, a cose fatte, quando riconosciamo che tutto sommato era meglio così, o per lo meno crediamo che a Dio nulla sfugga e tenga conto di tutto.
Questa rilettura degli avvenimenti tutta indirizzata al Cristo Messia, fa intuire ai due discepoli che in quell’uomo c’è qualcosa di particolare, il loro cuore arde, si rimette a battere e a sperare.
Gli chiedono di non andar via e di consumare la cena con loro.
Gesù prende il pane, lo benedice, lo spezza, lo dà loro, come aveva fatto tante altre volte.
E questo gesto di condivisione dello stesso pane fa crollare definitivamente il velo di incredulità dai loro occhi. Riconoscono il loro Gesù, i pasti con i peccatori, la moltiplicazione dei pani, soprattutto il momento solenne e drammatico del cenacolo. C’è tutto il suo amore smisurato che lo ha portato a donare la vita per gli uomini, c’è il suo desiderio di farci entrare in una comunione piena con lui. “Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, io verrò da lui, cenerò con lui e lui con me” concluderà il libro dell’Apocalisse.
Così accettano di seguirlo e di seguirlo per la stessa strada, disposti anche loro a dare la vita per il Vangelo.
Riconoscono che anche se si rende invisibile ai loro occhi non è però scomparso, perché è riconoscibile in modo del tutto speciale nel pane che si spezza, nel pane che è condiviso, nella comunità e nella vita di chi si fa pane per gli altri.
Questa è l’esperienza che anche a noi rimane e che abbiamo sempre a portata di mano. Più che obbligo, precetto, tradizione, l’Eucarestia è proprio questo: un’offerta di grazia, una presenza, quella del risorto, donata a chi è disposto a lasciarsi accompagnare e aprire il cuore e la mente.
Certo che non basta andare a Messa per essere cristiani ma è anche molto difficile essere cristiani senza andare a Messa.
Dall’Eucarestia, intesa come parola di Dio e pane spezzato, ci viene una luce che ci consente di decifrare la nostra esperienza, di mettere insieme i vari pezzi della nostra vita, e darci le motivazione e la forza per non arrenderci, per fare il cammino, questa volta in senso inverso, come i due discepoli di Emmaus, dal pessimismo alla speranza, dallo scoraggiamento ad una grande forza interiore, perché tutto è prezioso della nostra vita, anche i momenti dolorosi che non comprendiamo, e siamo sicuri che Dio tiene conto di tutto.
d.g.m.