Pellegrinaggio a Tortona

Era cominciata in sordina, parole libere di discorsi altrui e, pur preferendo l’acquitrino del proprio brodo, spendere qualche nozione acquisita col tempo sembrava non compromettere: non era partecipazione. Così, sebbene scegliere un santuario per un pellegrinaggio non abbisognasse di particolari motivazioni, si pensò ai 75 anni dalla morte di Don Orione, la cui urna attrae alla devozione ed alla preghiera nel bel santuario mariano da lui eretto in Tortona, cittadina laboriosa in cui l’Opera crebbe, a scaglioni, come nelle famiglie, un figlio dopo l’altro. Quest’anno tocca alle Suore ed ai Piccoli Cottolengo, gemelli centenari.

Rimane memoria del pellegrinaggio più numeroso, a Roma, quello per la beatificazione del fondatore, giusto 25 anni fa (treno speciale, 16 corriere, ottocento persone), come della successiva canonizzazione (2004). Ma altri, più datati, si potrebbero citare, con una scelta predominante verso la Madonna della Guardia, a partire dal monte Figogna. Erano momenti in cui le “preferenze” erano dettate sia da ragioni economiche, quantunque il pranzo fosse rigorosamente al sacco, che dagli ospiti, molto più numerosi ed autonomi fisicamente, tanta parte inclusa in un generico “orfanelli” fra i quali la prevalente origine bellica non aveva a disdegno le cause minori.

C’è stata poi un po’ d’anarchia, se ci si può esprimere in tal modo. I vari istituti genovesi si sono organizzati singolarmente dando vita a gite autonome di cui questo bollettino è stato sovente portavoce. Il pensiero di Don Alessandro D’Acunto, Direttore del Piccolo Cottolengo Genovese, suggeriva un passo indietro, tanto più impegnativo per la robusta presenza di carrozzelle, persone anziane da accudire, gruppetti più o meno omogenei da guidare e amalgamare. Mi sono sentito stimolato dall’idea e dall’ampia libertà lasciata alla Divina Provvidenza perché provvedesse in proprio alle molteplici immancabili manchevolezze. Il gusto del bisogno mi ha forzato la mano, ma non perché fossi portatore di doti indispensabili. Forte della convinzione la riuscita dipendesse dal comune interesse dei pellegrini, ho capito d’aver fatto centro qualche giorno prima della partenza, quando mi sono iscritto.

È un preambolo lungo, spero qualche benigno lettore resista. Sei corriere più una attrezzata per carrozzelle e due pulmini. Fanno un bel vedere, in riga. Per non dare nell’occhio e suggerire eventuali “prime donne” siamo partiti da Castagna-Bogliasco, a seguire Camaldoli in solitaria ed altra in compagnia di Villa Santa Caterina, le tre di Paverano che incorporavano altre piccole realtà, tipo Boggiano Pico, Von Pauer, Boschetto… A concludere la fila numerica, carrozzelle, carrozzelle, carrozzelle. Sui mezzi il clima è sereno, vivo. Trattandosi di pellegrinaggio la religiosità occupa il proprio spazio, ma rispetta e sostiene le altrui esigenze, prima fra tutte quella di favorire nuove conoscenze. Sulla “mia” (perché mi sopportano) corriera Don Aldo Viti, missionario novantaduenne, racconta i pochi incontri con Don Orione, nel 1938, prima d’andare in “Africa”, lapsus che la dice lunga su dove abbia il cuore.

All’arrivo gente che aiuta a scendere, ad indicare bagni e similari, a far da vigili nell’attraversamento della strada, forse superflui vista la gentilezza e pazienza dei pochi automobilisti in circolazione. Si confluisce quindi dietro il santuario da dove prenderà il via la breve processione d’ingresso, chiusa dai religiosi raccolti attorno al Vescovo emerito Monsignor Martino Canessa il quale, rivolgendosi ai nostri ospiti durante l’omelia, dichiarerà d’essere “uno come voi”. Tant’è vero che ha viaggiato sulla corriera del Direttore ( non nel senso della mia, per carità) umile, alla mano, pastore emerito che ama stare col gregge, anche quando non è strettamente il proprio. È una bella giornata tiepida, animata da un lieve venticello che dissuade l’afa.

Il santuario è a totale nostra disposizione. A dissipare qualche eventuale dubbio ci pensa il Rettore, Don Renzo Vanoi, il quale ci accoglie così: ”Benvenuti nella vostra casa”. Non è che si sia preso paura, notando l’invasione dei banchi, del coro, dell’altare, con i nostri famosi chierichetti Angelina e Angelo? Non abbiamo l’aspetto di sgherri scesi dal nord con Federico Barbarossa fino alla limitrofa Pavia! No, è pacifico, tranquillo, quasi quanto Don Orione nella sua urna, sulla destra. Monsignor Canessa ha incentrato il suo dire sul senso del pellegrinaggio: rinnovare il comune ringraziamento al Fondatore e alla Madonna. E’ una messa gioiosa, allegra. C’è chi ruba brevi attimi di sosta per salutare qualche suora anziana che ha trascorso parte del suo pregresso a Genova. Nient’altro, perché il Centro Mater Dei ci pretende e noi, ovviamente, non abbiamo nulla da obiettare. Don Alessandro ci trattiene ancora un attimo presentando, con la signora Rosita Zaro, già volontaria che insegnava ricamo al reparto Don Sterpi, la casula regalo del Piccolo Cottolengo Genovese alla Madonna della Guardia, della quale riporta l’effigie.

Le carrozzelle: fanno dannare. Chi ci sta appollaiato sopra, naturalmente, ma pure chi le deve manovrare, specie se in salita o discesa. Ma le abbiamo addomesticate a dovere, anche quando si è trattato di sfrattare le sedie, con le quali non corre buon sangue. Il salone offerto dal Centro Mater Dei ci dona una fantastica ospitalità di spazi, personale, menù. Fisso, salvo situazioni particolari, eccellente dall’antipasto al dolce, accompagnati da una sorridente, frizzante bonarda dell’oltrepo pavese, innocua finché non leggi i gradi, dirottando sull’acqua. Ciascuno conosce le possibilità esistenti per coprire l’oretta che ci separa dal rientro, convinti peraltro di non riuscire a vedere il tutto. Carrozzelle ed anziani devono rinunciare a priori alla torre sulla quale è posta la statua della Madonna. L’ultimo tratto consiste in una ripida scala. Ma il presepio è fruibile. Vero è che c’è la salita, ma è fotocopia di quella già affrontata per il ristorante. Del resto è una giornata in cui tutti si aiutano. E, comunque, meritava proprio.

Qualche piccolo mugugno (che diamine, siamo genovesi) per il negozio dei ricordini chiuso. La visita alla mostra per il centenario della fondazione delle suore annullerebbe qualsiasi altra possibilità. Però un salto a salutare le vecchie suore di Paverano si può fare; sarà veloce. È l’ora della pennichella e, alzate, ne incontriamo solo due. Quindi di corsa in cripta, attraversando la storia della Congregazione, per fare un saluto a Don Germano Corona. C’è molto fresco, sembra d’entrare in un suo racconto sulle montagne che amava. E di corsa anche da Don Orione con una preghiera sulle labbra cercando di non importunare il dialogo aperto con quanti gli stazionano accanto. Perché è vero che siamo qui per dirgli grazie ma, come da vecchia abitudine mendicante, soprattutto e sempre per chiedere. E poco importa sia per terzi!

È ora di rientrare. Già da diverse ore il grazie che eravamo venuti a portare ci viene riversato addosso e continuerà nei giorni a venire per quel poco a cui abbiamo collaborato – insieme – solo alcuni in un ruolo preciso, la maggioranza del tutto casualmente. Non c’è distinzione fra chi offre o riceve; è un unico ringraziamento che, dopo averci attraversato, si abbarbica a Don Orione per diventare preghiera. Vorremmo la gioia del nostro essere famiglia allargata si riversasse attorno, impregnandone vicini e conoscenti. È un compito ancora da espletare, e spetta a noi soddisfarlo.