Pensieri in libertà
Mentre il tempo guarda con favore a giornate meno calde, molti discorsi vertono ancora sulle vacanze ormai quasi dimenticate. Vivono però nei ricordi e sono talmente importanti da creare, persino nella mente di chi non ne ha goduto, una sottospecie di romanzo a puntate da propinare ai vari conoscenti suscitando in essi una effimera invidia, giacché il colore del fantastico illumina di luce propria l’inesistente realtà. E, a furia di raccontare, finiscono per crederci gli stessi “autori”. Del resto sono necessari solo piccoli accorgimenti, del tipo: non nominare i luoghi, fingendo magari dimenticanze dovute all’età, talvolta purtroppo reali, i compagni di favola, i variegati soggetti incontrati. Non è necessario scovare un sacerdote, ormai merce rara in Italia come negli altri stati ritenuti più abbienti, per una confessione riparatrice. Non capiti mai, essendo la “colpa” veniale, il reverendo non sia solleticato dal piacere di sciorinare segreti giunti salvi fino a lui. Ovviamente senza nomi, ci mancherebbe. L’inconveniente è che molti, con l’aria che tira (il tempo, si diceva) hanno imparato a far di conto, fino almeno al due più due.
Altri non fanno calcoli perché non dispongono di “elementi” utili, imitati dai similari ai quali bastano i prestiti, rimandando l’eventuale restituzione ad un incerto futuro, per la controparte giustamente corroborata da laute “mance”, salva particolare sollecitudine di sorella morte, mai tanto cara e opportuna. Non preoccupatevi, non si arriva al suicidio. È gente di sani principi, di incrollabile sicurezza, di teutonica fiducia. I primi, invece, non sono riconducibili ad unica categoria. Fra essi c’è chi abbisogna solo d’un minimo d’oculatezza, di qualche piccola rinuncia e, scendendo, d’ulteriori piccolezze negate dopo le quali si viene inseriti d’ufficio tra i veri poveri “primari”. Cosa volete interessi loro una stupida vacanza quando l’unico impellente bisogno è mangiare, bere. Non prodotti di qualità raffinata né in grande quantità. Giusto il necessario per sopravvivere un giorno dopo l’altro, finché Dio vorrà. Perché di bello, questi soggetti, hanno la ricchezza di credere in unico Dio, vestito di tutte le nostre umanità e religioni, riconosciuto nella sua onnipotenza e nell’immenso amore con cui li avvolge, nonostante apparentemente non riesca a risolvere i loro piccoli problemi esistenziali. Si assiste ad uno scambio reciproco di cui beneficiano ulteriori miseri, grati al poveraccio da cui sono stati beneficati e ancor più a Dio che l’ha concesso. Sembra una rilettura del nostro meridione, almeno fino agli anni 60.
Per associazione di idee il pensiero scivola sulle troppe nazioni in guerra, visibili o nascoste, a quelle poverissime, allo sciame di esseri umani che scappano da casa loro nella speranza di trovare altrove un luogo dove sia possibile stare meglio o, almeno, vivere con dignità. La politica divide caparbiamente ragioni e torti addomesticandoli ai propri bisogni, discutendo sulle ong, su chi lucra del traffico, sull’onestà di una certa parte di migranti, su quanti essi siano globalmente. Da canto nostro ci siamo persino ritagliato un angoletto da primi della classe, da benefattori… Ci mancherebbe altro! Chissà se qualcuno di noi ricorda ancora quanti siano stati i nostri profughi. Brave persone, certo: perché italiani. A guardar bene, non possiamo addossarci la responsabilità d’una delle nostre prime esportazioni: la mafia! I personaggi di indubbia qualità, che collaborano ad una informazione corretta e documentata nei vari servizi televisivi e giornalistici, in genere, escluse rare eccezioni, parlano di cultura, di modo di vivere da difendere, tutti rigorosamente nostrani o, se si vuole, estesi a questa Europa unita, somigliante al vecchio stivale d’una volta, calzato da un numero consistente di re, principi e titoli vari, per lo più in sintonia finché non si toccavano i loro interessi.
Com’è confortante apprendere d’avere cultura e un modo di vivere brevettato, anzi l’unico degno! Indegno è quando uno o più organi pubblici consentono la divulgazione di simili idiozie non condivise innanzi tutto dalla storia e dai reperti archeologici, ed in secondo luogo da quella cauta intelligenza ridimensionante da cui deriva la stima per tutte le diversità riscontrate in natura, considerate universalmente una ricchezza. Siamo una delle tante nazioni dove la pubblicità vive alla grande e prolifera, quando frutta. I migranti, a parte una ristretta cerchia, non creano benefici immediati, quindi scoraggiamoli. A parole, almeno, prima che ci raggiungano, e poi con un certo tipo di accoglienza distaccata, giuridica, legale. Il rapporto umano, di cui sentono soprattutto la mancanza, è delegato ai singoli cittadini, esattamente come accadeva ai nostri migranti, con una piccolissima variante. Sembra la povertà aiuti ad accostarci maggiormente a chi la vive in prima persona. Se così è, siamo sulla buona strada; le nostre prossime disagiate condizioni ci faranno diventare più bravi, umani e generosi. In linea con tale valutazione i pastori sardi, non inseribili tra i benestanti e quindi già in sintonia, hanno fatto dono d’una pecora a testa ai loro simili, terremotati nel centro Italia. Se di cultura si può parlare, è bene fermarsi a quella antica, senz’altro più profonda e radicata. Mi spingerei un po’ oltre pure sul modo di vivere accennando ad un mio zio, pure lui sardo e pastore: Battista.
Non vi ho piantato in asso, dovreste conoscermi. Battista, da giovane, aveva avuto un problema. Era sbocciato col matrimonio, cosa non insolita per chi si inoltra su tale strada, cresciuto nella sua casa-recinto ed espressa nel fatidico: “O me o le pecore”. Considerato il particolare momento, gli importava meno di niente del lavoro sicuro (e diverso) per sé e la moglie, nella bella Toscana. Il progetto necessitava di soldi per essere attuato, per cui decise di vendere la propria casa a mio padre, il quale aderì. Per come l’ho appresa io dall’acquirente, lo stesso si impegnava, qualora fosse rientrato, a rivendergliela allo stesso prezzo; in fondo erano cognati. Ed è attendibile, poiché conosceva perfettamente l’infatuazione da gregge. Tuttavia lo è altrettanto l’idea lo stesso Battista si fosse difeso con quella scorciatoia. La sua trasferta durò pochi anni. Lui ci moriva in quella favolosa Toscana, senza pecore e cani. Lavoro, soldi. Non era vivere! Rientrarono, ciascuno rimettendoci un po’ d’amor proprio (lei la Toscana, lui le pecore praticamente in casa) per vivere felici e contenti come recitano le vecchie storie. Mi rendo conto d’avervi probabilmente annoiato con tanto zio e sue vicissitudini, ma avevo bisogno di una mano per concludere e lui me la offre per sdebitarsi in qualche modo con mio padre.
Il 17 agosto c’è stato l’attentato a Barcellona, in Spagna. Apriti cielo! Inutile ripetere. Poiché le notizie certe tardavano, hanno riempito gli spazi vuoti con interviste a giornalisti delle varie nazioni colpite in precedenza. Tutti luoghi appariscenti, simbolo di agiatezza e benessere, comunque invisi agli attentatori, e soprattutto ai mandanti, probabilmente per offrire una fragile scusante ai nuovi adepti. Ogni gesto contro l’uomo ne offende il Creatore. Tuttavia non me la sento di dover riconoscere come mia cultura quella espressa da Charlie Hebdo, in Francia. Semplicemente perché non l’ho e non la voglio avere. Sarò libero d’esprimermi senza danneggiare alcuno? Un commentatore dei fatti su Barcellona, per scusare in qualche maniera le lungaggini della polizia, ha aggiunto che pubblicare foto dell’accaduto era contro la dignità delle vittime e soprattutto quanti cercavano nella fuga una via di scampo. Di fatto la sua valutazione si scontrava col pregresso, e ci può stare: persone diverse, diverse opinioni. Tuttavia mi sembra strida troppo la differenza dignitaria fra nostrani ed extra comunitari, vivi e defunti. Non ho mai sentito notizie su pretese dignità di questi ultimi: ne hanno? Non credo. Se ne avessero i loro trasferimenti dovrebbero avvenire con altre modalità, mezzi diversi. Dovrebbero raggiungere luoghi certi, sicuri, con possibilità di vivere dignitosamente, favorendo pure un loro approccio al lavoro nella prospettiva di una integrazione.
Di fatto, spesso e volentieri, l’accoglienza da noi offerta è una sceneggiata. Sono quei gesti brevi, inconsci, invisibili se non li osservi, che tradiscono il tuo sentire, specie coi neri. Per fortuna ne sono immune perché ho sempre amato le missioni, i religiosi che vi si spendevano ed il contesto laico di supporto al Piccolo Cottolengo Genovese, al quale il Direttore Provinciale della Costa D’Avorio, riconosceva il merito d’essere stato cofondatore, continuando nell’aiuto fraterno in collaborazione con i generosi Amici di Don Orione. D’altro canto, mentre ho avuto problemi seri ad accettare la malattia, specie nei soggetti giovani, non ne ho mai avuto coi “neri” né con chi coloriamo diversamente per indicare l’etnia e, magari, considerarlo diverso. Li ho trovati in genere migliori, più spontanei e sinceri, a prescindere dalle difficoltà linguistiche. Fra i più cari vorrei citarne due, entrambi della Costa D’Avorio. Il primo è Raymond Ahoua, oggi Vescovo. Lo conobbi, ancora chierico, partecipare ad un concorso letterario organizzato dal Piccolo Cottolengo. Ne fu dichiarato vincitore alla Terrazza Martini, nonostante si trattasse di poesie, e per giunta in francese. Buon secondo fu Don Fulvio Ferrari, ora Economo Generale. Il secondo è Peggy, chierico orionino. Ci ha lasciato questa estate, dopo quasi due anni di vita in comune, per proseguire l’iter sacerdotale a Roma con la Teologia. L’ho conquistato al primo incontro con un saluto affettuoso ed un sorriso. Non aveva bisogno d’altro. Poi l’ho sfruttato (razza grama, la nostra) sforzandolo alla produzione d’un articolino, apparso su questo bollettino e, anima candida, promettendone qualche altro…
Per la “par condicio” non dovrei allegare alcuna foto e affidarmi alle mani esperte di Anna Mauri, la quale cura l’impaginazione del nostro bollettino (e non solo) a partire dal settembre 1991. In qualche modo faremo. Intanto ne approfittiamo per un pubblico grazie sia ad Anna, capace e preziosa, sia alla Velar, la tipografia a cui ci affidiamo.