Quelle parole potenti e comuni, piene di Dio (Don G. Baget Bozzo)
Leggere Don Orione è ricordare un tempo glorioso della Chiesa in cui quelle parole, qui così viventi nello Spirito, erano anche un lessico comune. E se la potenza della grazia rendeva travolgente quel dire erano sempre parole comuni di un prete negli anni della mia giovinezza. Ora sul parlare del prete è sceso un vuoto, non vi si trascrivono più le parole della Sapienza: quasi quelle parole non abbiano più la forza del senso comune, non siano più trascritte nel linguaggio implicito che diciamo anche quando non pronunziamo parole. In Don Orione la fede e la carità sono una sola cosa: l’amore per il Cristo re, l’amore per il Papa sono un solo amore; l’amore per i lontani ed i peccatori è la stessa cosa dell’amore per Dio. L’amore di Dio per noi e l’amore di noi per Dio, non si distinguono, l’Amore stesso che è Unità, ha consumato ogni divisione.
Mi ricordo gli anni Quaranta, in cui essere cattolico era cosa semplice, in cui non dovevi sezionare il tuo cuore secondo la molteplicità delle intenzioni. La molteplicità delle buone cause soffoca l’impeto ardente dell’unica voce che vuole semplificare nell’Uno la molteplicità del creato. Don Orione vede il Molteplice nell’uno e sa trovare nella fede la chiave della carità e nella carità l’essenza della fede. Oggi non ci è più dato! Oggi se crediamo troppo, siamo integristi fondamentalisti, se crediamo troppo poco siamo mondani dediti ai piaceri del secolo. Oggi non ci è dato di fondere il molteplice nell’uno e gridare “viva il Papa” senza offendere i fratelli separati e diminuire il ruolo dei teologi e dei vescovi. La Chiesa di don Orione era semplice, ora abbiamo una Chiesa complessa.
Oggi il prete deve parlare di globalizzazione e di condivisione, deve parlare il linguaggio politicamente corretto, ecclesiasticamente corretto. E come può allora l’Unità divina invadere della sua Essenza la molteplicità umana e cogliere nella pienezza della Chiesa il segno sacro che include e conclude tutta la storia? Tempo di don Orione come sei lontano! So che il mio vescovo amato, Giuseppe Siri, venerava don Orione come padre della sua vocazione. Ma egli stesso cadde vittima quercia affranta della molteplicità del linguaggio in cui bisognava distinguere tra Santa Chiesa ed i tanti popoli di Dio, che si moltiplicavano come le foglie e come le foglie dileguavano.
Forse Don Orione tu hai previsto il sangue d’Europa, il nazismo e il comunismo, la Chiesa fatta schiava e gli uomini ridotti a numeri, hai intuito le ferite terrestri del corpo del Cristo. Ma non avevi ancora visto le ferite invisibili, le ferite non nel corpo della Chiesa, ma nella sua anima. E che sono diverse da quelle dei tuoi anni perché quelle erano ferite che si conoscevano, chi si separava dalla fede sapeva quel che faceva; non è come oggi abbandonare una tunica stracciata. Ricordo i tuoi funerali, moriva il prete del tuo secolo, il prete in cui la fede era la stessa cosa della carità.
E doveva nascere il prete della fede segreta strappata a brandelli dai libri dei teologi dalle circolari delle congregazioni, dalle pastorali dei vescovi in cui tutto è detto così bene da togliere quell’Eccesso verbale in cui propriamente si dona l’Eccesso divino. Don Orione, tu non hai ascoltato le canzoni orribili “chiesa di Dio popolo in festa”, non hai conosciuto il gracchiare delle chitarre, si cantava solo il gregoriano e la canzone devota, non la banalità resa immune dal sacro svanito. Tu don Orione non hai conosciuto lo stingersi del Segno, l’impallidire del Sacro. Hai conosciuto una Chiesa peccatrice, beata Chiesa peccatrice. Non hai conosciuto una Chiesa mondana, giusta in cui il sale non è più presente e, se lo fosse, sarebbe un ingrediente imbarazzante. Non hai conosciuto la Chiesa diventata pallida immagine di ciò che il mondo vuole che sia la Chiesa. Abbiamo il prete dei drogati, delle prostitute, dei preservativi, questi sono i volti della carità, televisivamente oculata.
Don Orione hai visto Babilonia in Gerusalemme. Dacci i tuoi occhi per vedere Gerusalemme in Babilonia.
Dal libro: Le mani della Provvidenza