Un certo Don Orione, un prete piuttosto strano
Volendo si potrebbe, parlando del terremoto che coinvolse la Marsica a gennaio del 1915, utilizzare foto che attestano la parziale o totale distruzione di case e chiese, trasformate in cumuli di macerie, o commemorare le ottantamila persone sepolte sotto di esse. Farebbe un certo effetto. Ma non è questo che ci si propone. Nonostante si cerchi di aderire il più possibile ai fatti, diventa difficile ricostruirli, dare nomi certi alle salme recuperate e ancor più alle scomparse, quasi inghiottite dalla terra. Don Antonio Ruggeri, religioso orionino, anch’egli orfano marsicano, nel suo libro “Don Orione, Ignazio Silone e Romoletto” segnala che molti municipi e relativi registri della popolazione andarono perduti. Alcuni documenti furono ripristinati con l’aiuto degli archivi parrocchiali, ove salvati.
I due fratelli, Secondino e Romoletto, erano della famiglia Tranquilli di Pescina (Aquila), composta dai genitori, Pao-luccio e Maria Annina Delli Quadri e dai figli: Domenico, il maggiore, e appunto i due citati. I parenti prossimi allora viventi non ne ricordavano altri, quantunque per Secondo (Ignazio Silone) dovevano essere sette, di cui quattro forse morti in tenera età. Solo di Domenico rammentava che “studente, cadde da una finestra e si ruppe la spina dorsale”. Notizia inesatta, a parere di Don Ruggeri, il quale colloca Domenico e la madre – il padre era già morto – nella casa di via Fontamara dove perirono il giorno del terremoto. La salvezza del futuro scrittore è dovuta al fatto di trovarsi presso la nonna. Da lì vide uno dei vari episodi da lui raccontati, il più famoso dei quali rimane “Incontro con uno strano prete”, capitolo di “Uscita di sicurezza”.
«Si era appena a pochi giorni, dopo il terremoto: la maggior parte dei morti giacevano ancora sotto le macerie, i soccorsi stentavano ad organizzarsi. Gli atterriti superstiti vivevano nelle vicinanze delle case distrutte, in rifugi provvisori. Si era in pieno inverno: nuove scosse di terremoto e burrasche di neve minacciavano i superstiti; durante la notte, richiamati dal puzzo dei cadaveri insepolti, torme di lupi scendevano dalle montagne vicine; bisognava alimentare continuamente grandi fuochi per tenerli lontani. Uno di quei giorni, dunque, assistetti ad una scena strana: un piccolo prete, povero e malandato, con la barba di alcuni giorni, si aggirava tra le macerie, attorniato da una schiera di piccoli ragazzi, rimasti senza famiglia.
Invano il prete chiedeva un mezzo di trasporto per portare quei ragazzi a Roma: la ferrovia era stata interrotta dal terremoto, altri veicoli non vi erano per un viaggio così lungo. In quel mentre, sul ponte, vicino ad una chiesa distrutta, si fermarono cinque o sei automobili: era il Re, col suo seguito, che visitava i comuni devastati. Appena gli illustri personaggi scesero dalle loro macchine e se ne allontanarono, il piccolo prete sconosciuto cominciò a caricare, sopra una di esse, gli orfani da lui raccolti. Ma ne nacque, come era prevedibile, una vivace colluttazione tra lui e alcuni carabinieri, rimasti a custodire le macchine; a tal punto che l’attenzione dello stesso sovrano fu attirata da quel chiasso. Affatto intimidito, il prete si fece avanti e chiese al re di lasciargli per un po’ di tempo la libera disposizione di una di quelle macchine, in modo di poter trasportare gli orfani a Roma. Il re acconsentì.
Io assistetti, a pochi passi, con stupore e ammirazione, a tutta la scena. E quando il piccolo prete, col suo primo carico di ragazzi, si fu allontanato, chiesi attorno a me: – Chi è quell’uomo straordinario? – Qualcuno mi rispose: – Un certo Don Orione, un prete piuttosto strano…».
«Egli mi raccontò le sue faticose peripezie di quelle giornate (del gennaio 1915), dall’uno all’altro dei villaggi distrutti dal terremoto. Il disastro gli era apparso ogni giorno più vasto di quello che in principio si era detto; le comunicazioni con i villaggi di montagna erano lente e difficili per la neve e i lupi; e d’altra parte ogni ritardo nei soccorsi ai feriti che si lamentavano tra le macerie, ai malati senza ricovero, ai bambini vaganti, aumentava il numero delle vittime. Aveva impiegato ventisette giorni a percorrere l’intera contrada. Durante quel mese, non era mai andato a letto e non aveva conosciuto un’intera notte di riposo, ma solo qualche ora su giacigli improvvisati, senza togliersi le scarpe dai piedi, per non rischiare il congelamento. Appena aveva raggruppato un certo numero di orfani o di ragazzi abbandonati, li trasportava a Roma; e poi tornava immediatamente sui luoghi del disastro per cercare di salvarne altri.
Ognuno ha la forza di cui ha bisogno, si usa dire da noi. La pecora, la sua e l’asino, la sua -, io dissi non riuscendo a tacere la mia ammirazione. – Pensa che, quando avevo la tua età, fui dimesso da un convento di francescani e rimandato a casa, perché la mia salute sembrava malferma e inadatta alla vita monastica».
A testimonianza di questo eroico primo periodo della presenza di Don Orione in Avezzano, si conserva la conosciutissima pagina del Barone Von Hüghel, che, se pure di altra sponda, chiudeva il suo volume “Essay and adresses on the Philosophy and Religion”: «Quando la mia figlia maggiore, circa otto mesi prima della sua morte, poté, da Roma, giungere ad Avezzano, al centro della terribile devastazione, proprio allora causata da un terremoto eccezionalmente violento, un contrasto impressionante venne a colpire d’un tratto il suo spirito. Nel mezzo della morte e del disordine, si muoveva, completamente assorto nella sventura di quei poveri, Don Orione, un umile prete, un uomo cui tutti guardavano di già come un santo, sorto dagli umili e dai poveri, per gli umili e per i poveri. Egli portava due bimbi, uno su ciascun braccio, e ovunque andava, recava ordine, speranza e fede, in mezzo a tutto quello scompiglio e quella disperazione. Mia figlia mi disse che ciò faceva sentire a tutti che l’Amore era proprio in fondo a tutte le cose, un Amore che appunto là, per quei luoghi, si manifestava attraverso il completo, affettuoso dono di sé, di quell’umile Prete.
Io m’indugio su questa figura sacerdotale: in lui è l’unione dell’elemento eroico con la geniale sublimità di Cristo, l’ascetismo senza rigorismo. Il sovrannaturale si dimostra così, in tutta la sua ricca larghezza; davvero non c’è espansione, non c’è tranquilla felicità, non c’è gioia paragonabile a quella di una vita completamente docile al Dio della Natura e della Sovranatura».