Una felicità promessa è possibile
Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio. Beati voi che siete afflitti, che avete fame e sete di giustizia. Beati voi che siete miti, che siete operatori di pace. Beati voi che siete perseguitati a causa del mio nome, perché Dio stesso è la vostra ricompensa ed è grande.
In genere, nel nostro linguaggio cristiano, non si adopera molto la parola “felicità”, forse perché sembra laica, profana. Essa invece merita di essere rivalutata, perché con questa parola noi intendiamo veramente la piena realizzazione della nostra vita.
E quando Gesù afferma beati, beati voi poveri per esempio, intende dire proprio felici. Felici non perché miseri o ingiustamente oppressi, ma perché vostro è il regno di Dio. Ciò che conta è il motivo per cui viene promessa la beatitudine, una condizione di felicità profonda e non effimera, che non può dipendere da fatti contingenti come talvolta si è portati a pensare, ad esempio una grossa vincita in denaro.
Invece beati, felici, se siamo nel regno di Dio, se crediamo che lui ci fa giustizia, anche oltre la morte. I martiri che davano la vita per il Signore e la loro fede, erano convinti di essere più forti dei loro aguzzini, realmente vincitori e non sconfitti.
Certo il tono è paradossale: dire che chi piange è beato, cioè felice, è palesemente assurdo e anche contradditorio in se stesso. Chi piange per un dolore non può essere felice nello stesso momento. Ma la ragione della beatitudine non si riferisce alla situazione in cui si vive, ma rimanda appunto ad un intervento divino, ad una azione divina. Beati perché Dio ha scelto di intervenire e stare dalla parte di chi è umanamente perdente.
Un effetto enorme aveva e ha tuttora questo messaggio delle beatitudini in tutte quelle persone che ascoltavano allora Gesù e che ancora oggi le accolgono nella loro vita. E sono sempre quelle persone che i potenti di questo mondo tengono ai margini e calpestano nei loro diritti.
Gesù invece annuncia che Dio è dalla loro parte, e che fa giustizia lui, almeno lui, e questo dava e dà fiducia e speranza, li rianima e dà forza per prendere coscienza della propria dignità e dei propri diritti.
Non è un discorso rinunciatario o che invita alla passività come da qualcuno nella storia è stato inteso, ma la radice stessa di ogni rivendicazione personale della propria libertà. E lo sanno bene i professionisti di quelle ideologie totalitarie che per prima cosa impediscono la manifestazione di una fede religiosa come la più pericolosa e rivoluzionaria.
Ma il compimento pieno di ogni giustizia e rivendicazione non può che realizzarsi oltre questo mondo umano e terreno e va affidato esclusivamente a Dio.
È questo il significato positivo della catastrofe cui molte volte la sacra scrittura fa riferimento. Il temine catastrofe è greco e indica un capovolgimento, un ribaltamento della situazione, come quello espresso dal Magnificat quando parla di abbattimento dei potenti ed esaltazione degli umili, di nutrimento degli affamati e di cacciata dei sazi. Il progetto di Dio sull’uomo non è di sventura e di rovina, ma di pace e felicità, cioè di comunione piena con lui.
Ma nello stesso tempo non è semplicemente e totalmente futura la felicità, come compensazione di un bene che ci è mancato quaggiù, ma è anche pienezza del presente, una vita migliore quaggiù. La felicità è un dono che Dio ci fa ed è realizzazione delle nostre potenzialità. Eccome se è possibile vivere ugualmente felici e profondamente sereni nonostante le dure prove e traversie dell’esistenza, se davvero Dio abita la nostra vita.
La parola stessa Vangelo significa «buona notizia». Ma qual è questa buona notizia? Se dovessimo riassumere in una frase il vangelo di Gesù, per spiegarlo a un non cristiano o per chiarirlo a noi stessi, sapremo cogliere l’elemento essenziale della nostra fede o perché crediamo nel vangelo?
Spesso ricorriamo agli imperativi morali come «amare il prossimo e amare Dio». Sembra che l’essenziale della buona notizia sia nell’imperativo del fare, un discorso di azione da parte dell’uomo: non è una buona notizia. Gesù non è venuto a comandarci in prima battuta di volerci bene, di aiutare il prossimo, di non giudicare e così via, perché in questo caso non potremmo parlare di «buona notizia» richiedendo un forte impegno da parte nostra.
La Buona Notizia che Gesù rivela invece è la presenza di Dio che ci viene incontro per mezzo della sua stessa persona, e che se preso sul serio, allora non possono che cambiare in meglio anche i rapporti e le relazioni umane.
È venuto a ricordarci che Dio Padre è dalla nostra parte, e questo si è realizzato mandando a noi il suo unico figlio, per farci tutti suoi figli. Beati perché si è interessato a noi, e non vuole perdere nessuno. Non solo, ma soprattutto è venuto a indicarcene la strada e darci la capacità di poterla percorrere fino in fondo. Io sono la Via, la verità e la vita, dice.
Così dà compimento a quel desiderio profondo che troviamo nel cuore di ogni essere umano, perché davvero tutti vogliono essere felici. Dio ci ha creati perché fossimo felici, come lui, e fa di tutto per fare di noi delle persone felici. La Felicità è la radice della nostra persona, è il suo “marchio” impresso in noi.
Ma come realmente raggiungere la felicità? Ci scontriamo nella pratica con mille proposte differenti e divergenti, dalle più banali della pubblicità commerciale fino a quelle promesse politiche ed umane che sappiamo irrealizzabili e impossibili, tanto da far credere a molti che la felicità non esiste e quindi è inutile cercarla.
Invece la «buona notizia» che è Gesù Cristo, che dice di essere Dio, sta nel garantirci che questo obiettivo è possibile, che non è un’illusione. È possibile la felicità e ci viene data. Ma la sua non è una felicità epidermica o di superficie, che si può avere a basso costo. È quella vera, resistente per tutta l’eternità, che solo lo sguardo della fede può intravedere e giudicare certa.
D.G.M.