STORIA DELLE CASE
Via Bosco
Nel periodo rinascimentale, a Genova un giureconsulto di parte ghibellina si stufa di tutti i maneggi delle corti e dei palazzi italiani ed europei e fonda a Portoria un ospedale: il Pammatone.
Lutero stesso elogia gli ospedali, istituzioni per il momento prettamente italiane. Dice in un suo scritto che il malato, quando entra, depone i suoi vestiti che vengono registrati da pubblico notaio e messi da parte con cura. Rivestito di veste bianca è deposto in un letto ben preparato e delle gentildonne velate vengono a custodire i malati. Per il governo dell’ospedale sono eletti quattro cittadini, detti Protettori. La Repubblica genovese in seguito unifica tutti gli ospedali esistenti in quello di Pammatone.
Nel 1478 entrò in quell’ospedale Caterina Fieschi Adorno e nel 1489 venne eletta Rettora, ossia responsabile di tutto. La santa vi morì nel 1510. Genova, come tante altre città, è il palcoscenico delle rivalità delle famiglie emergenti: Doria, Fieschi, Adorno, Fregoso, Campofregoso, Assereto, Di Negro, con tutti gli intrecci possibili e immaginabili. I Fieschi sul frontone del loro palazzo di Lavagna incidono: «Stet domus haec donec biberit formica marinam». Questa casa starà in piedi finché una formica non avrà bevuto tutto il mare. Ma Caterina, da quando nel suo palazzo ha incontrato il Cristo sanguinante, sotto il peso della croce, aveva cercato ben altra grandezza. Attorno a sé riunì un bel gruppo di laici, fra i quali Ettore Vernazza, notaio cittadino, resosi famoso per l’istituzione di lazzaretti nelle più importanti città come Roma e Napoli.
La storia non è fatta soltanto di conquiste, ma anche degli orrori che tutte le guerre e liti inevitabilmente si portano dietro: vedove, orfani, mutilati condannati a vivere e a morire, torture, schiavi. Regali abituali delle guerre erano la peste, il colera, il vaiolo e le malattie per contagio.
Ettore Vernazza aveva pensato ai fratelli incurabili e si era educato alla scuola di Santa Caterina Fieschi proprio lì, al Pammatone. Non per nulla il nome Pammatone dal greco Pan makion significa Palestra di lotta. Una lotta per il bene, una lotta contro la sofferenza. Se allora ci fosse stata la mentalità di oggi, la famiglia Vernazza già da tempo sarebbe venerata tra i santi. Alla figlia suora, Battistina, che lo consigliava di non esporsi tanto, dirà: «Proprio tu che sei suora mi debbi dire certe cose? Sarei ben felice se io morissi per li poveri!». Infatti morì di peste contratta assistendo ammalati, nel 1524. Don Orione, venendo a Genova, sarebbe finito proprio là dove la Madre dei poveri, come chiama Caterina Fieschi Adorno, aveva consumato la sua vita: al Pammatone di Portoria.
Sembrava un ripiego, un certo qual tentativo per riparare lo sfratto da San Girolamo e invece era il tocco magistrale di una regia dall’inventiva senza pari, una regia che chiamiamo Provvidenza.
Pammatone: crocevia di santi dell’umanità dolorante e abbandonata.
Con lettera del 13 novembre 1925, protocollo 1399 il presidente F.S. Mosso, dopo l’approvazione dell’amministrazione degli Ospedali civili di Genova, concedeva in affitto per tre anni il conservatorio San Girolamo di Quarto a don Orione. Il 25 maggio 1928, con raccomandata A/R, il medesimo Presidente dava disdetta dell’affitto, pregandolo di lasciare libero l’immobile per il 30 novembre dello stesso anno. Si chiudeva così una bella ma breve parentesi e se ne apriva un’altra tuttora florida e operante: quella di Santa Caterina di via Bosco.
Al di là di quello che l’immobile può significare per l’esercizio dell’assistenza ai miseri, esso riveste un’importanza unica per chi ha raccolto lo spirito di don Orione. Quando era in Italia ogni giovedì veniva a Genova e si metteva a disposizione di tutti. Per trovare un attimo di pausa don Orione si rifugiava su un materasso sistemato nella carbonaia. La superiora della casa, suor Stanislaa, perché le persone non andassero a scovarlo anche lì, ordinava a fratel Ambrogio Pavesi di far la guardia davanti all’uscio. «Cosa fai qui!?», gli disse don Orione contrariato, una volta che scoprì il tipo di servizio che il religioso gli prestava. «Me l’ha detto la Superiora». Tanto bastò per zittire il Fondatore.
Non sapremo mai cosa sia avvenuto nella stanzetta del Pammatone dove il nostro riceveva le persone, alle quali schiudeva orizzonti di misericordia, di carità, di grazia, di conforto, di incoraggiamento. Le testimonianze che ci restano sono sufficienti per ritenerla come un sacrario. Ricordiamo l’episodio raccontato dall’avvocato Giuseppe Sciaccaluga: «Parlammo delle mie vicende famigliari, della Prima Comunione della mia quartogenita Maria Grazia, di un intervento cui avrebbe dovuto sottoporsi mia moglie e di altro ancora. Al momento del congedo volle donare a mia moglie una corona del rosario, ai miei figli delle medagliette della Madonna della Guardia. Voleva, poi, evidentemente, regalare anche a me qualcosa, ma per quanto cercasse nelle sue capaci tasche non trovava nulla da offrirmi. Rimase per qualche istante perplesso, poi, come parlando a se stesso, disse queste parole: “E all’avvocato cosa possiamo dare?”. Avrà avuto l’impressione che rimanessi deluso o, forse, ed è questa la mia interpretazione del gesto subito dopo da lui compiuto, per non mancare di carità verso di me. Fu un attimo. Staccò da un occhiello della veste la catenella di metallo scuro alla quale teneva attaccato il suo povero orologio e me la porse. Commosso e confuso l’accettai. La catenella che era stata vicina al cuore di un santo era cosa mia: più preziosa di qualunque altro tesoro». Il figlio Piero, ora avvocato pure lui, è quel bimbetto passato alla storia per una simpatica foto che lo ritrae mentre riceve una delle famose medagliette distribuite da don Orione.
Il professor Carlo Castello parla di una conversazione tenuta con don Giuseppe Siri, ancora semplice professore di religione al liceo Doria, per organizzare con i suoi studenti un ritiro minimo. Castello gli suggerisce di sentire don Orione perché già ne aveva organizzati di simili a Villa Solari, e in quel giorno si trovava proprio in via Bosco, per uno dei suoi soliti incontri del giovedì con gli amici genovesi. Siri vi andò e descrisse, poi da cardinale, l’incontro come sapeva fare lui in una memorabile pagina. Castello, sbirciando dalla porta socchiusa, riuscì a sentire come iniziò il colloquio. Don Siri si inginocchiò ma don Orione gli disse: «Ma cosa sta facendo! Sono anch’io sacerdote come lei!».
Il prof. Castello chiude così il suo brano: «Dell’ultimo mio incontro con don Orione ricordo la data precisa l’11 febbraio 1940: la sua ultima venuta a Genova. Lo accompagnai in via B. Bosco e, già sofferente di cuore, faceva fatica a salire le scale, alquanto ripide, per arrivare in cappella. Mi permise di aiutarlo, appoggiandosi al mio braccio. Ad un certo momento, per prendere fiato si fermò e, volgendo verso di me il suo sguardo sofferente, mi disse: “Carlo, quanto vorrei ancora poter ardere!”. Mi ripetè tre volte: ARDERE».
La furia devastatrice della guerra, il 22 ottobre e il 6 dicembre 1942, riduceva ad un inferno di fuoco e di rottami il cuore della città. La sede del Piccolo Cottolengo in via Bosco non fu risparmiata. Dalla terrazza del Paverano si potevano vedere le fiamme elevarsi proprio dove tante ammalate erano in preda all’angoscia e al pericolo. Fortunatamente il vento cambiò direzione e il fuoco risparmiò le poverette. I religiosi di don Orione, accorsi noncuranti del pericolo, le trovarono tutte, strette attorno alle suore, che cantavano e pregavano a voce alta per sovrastare il rumore dei sibili, degli scoppi, e dei crolli e le portarono a Paverano e, successivamente in altre case più sicure.
Il fatto non sfuggì all’ammirazione delle autorità che lo vollero perpetuare con un gesto munifico. Il 24 ottobre 1948 il card. Siri benediceva una lapide con l’estratto della deliberazione del Comune, fatta l’8 febbraio 1944, quando ancora infuriava la guerra. Eccone alcuni passaggi: «Premesso che, a seguito delle incursioni nemiche del 22 ottobre e 6 dicembre 1942, è stato pressoché distrutto lo stabile di proprietà municipale, sito in via Bartolomeo Bosco n. 2B, che il Comune, fin dal 1928, aveva concesso gratuitamente in uso al “Piccolo Cottolengo Genovese” fondato e diretto dal venerato don Luigi Orione, perché l’Ente anzidetto vi svolgesse la sua caritatevole opera di raccolta e cura dei più miseri relitti della società; che dello stabile suddetto si è salvata soltanto la parte in cui si trovavano i modestissimi ambienti della direzione, dove don Orione riceveva i reietti e gli infermi […] che la Civica Amministrazione, sicura interprete del sentimento popolare, già dopo la scomparsa del Fondatore dell’Opera, aveva divisato di concedere perpetuamente una sede al “Piccolo Cottolengo Genovese” e che, allo scopo di dare una pratica attuazione a detto sentimento, il Comune stesso aveva pensato di donare all’Istituto anzidetto, l’intero stabile in oggetto, e ciò prima che lo stesso venisse colpito e in gran parte demolito dalle incursioni nemiche; che sebbene tale edificio sia ora materialmente semidistrutto, dal punto di vista economico conserva sempre intero il suo valore, in quanto lo Stato provvidamente ricostruisce a proprie spese gli stabili danneggiati dalle offese belliche […] il Comune di Genova ha donato, come dona, al Piccolo Cottolengo della Piccola Opera Divina Provvidenza (don Orione) Ente Morale con sede in Genova, con l’obbligo di destinarlo in perpetuo a sede e a beneficio del detto “Piccolo Cottolengo” perché in esso si continui a svolgere l’attività benefica per cui è stato fondato, l’intero edificio di proprietà Comunale sito in Genova, Portoria via Bartolomeo Bosco, civico 2B, tanto nella consistenza dei locali rimasti ancora abitabili, quanto quelli che, distrutti dalle bombe, saranno ricostruiti a cura dello Stato […] il Comune di Genova si impegna nel caso di ricostruzione dell’edificio donato, da parte propria o per parte di terzi, di incorporare o prescrivere che vengano incorporati nel nuovo edificio i locali superstiti, quali sono attualmente, con ingresso separato, affinché il loro insieme costituisce, nella sua povertà materiale e nella sua spirituale grandezza, il Sacrario della figura, della vita e dell’Opera di don Luigi Orione, a venerazione dei posteri. Una lapide marmorea vi sarà murata a ricordare, alto monito di cristiana bontà, la fervida dedizione dello scomparso don Luigi Orione, verso le creature più umili…».
Anima di questa, e tante altre iniziative di bene, fu il Grand’Uff. Aldo Gardini Preside della Provincia di Genova, tanto munifico quanto schivo. Nei locali dell’istituto di Paverano si era messa una targa con il suo nome a ricordo di altro gesto di generosità. Egli chiamò il responsabile e gliela fece togliere. Quest’ultimo, eseguendo l’ordine, si vendicò mettendone un’altra recante il motto «Flos memoriae marmore perennior». Ossia: «Il fiore del ricordo è più perenne di una lapide di marmo». Attualmente nei locali della Casa Santa Caterina ha sede Endofap Liguria, che svolge attività di formazione professionale, e si sta concretizzando il progetto dell’apertura di un Ostello della Gioventù, per accoglienza e turismo sociale.
Discorso all’inaugurazione della cappella del Piccolo Cottolengo
di via Bartolomeo Bosco, 20 gennaio 1929
A GENOVA «Quanto è mai buono il Signore! Un bel giorno ci fu chi mi disse che dovevamo partire da Quarto, dalla Casa di Quarto; ci fu anche chi mi disse: — Lei, martedì, potrà essere ricevuto dal capo del governo, che ha tutte le migliori ed ottime disposizioni per impedire che i poveri del Piccolo Cottolengo vengano via da Quarto. Io ringraziai quella persona — che si era adoperata, perché potessi essere ricevuto da Sua Eccellenza Mussolini —, la ringraziai anche dell’interessamento, perché i nostri poveri non avessero da essere messi su di una strada; ma mi parve, in quel giorno, dopo che ebbi un po’ pregato, che quella non fosse la via del Signore e ringraziai dell’udienza promessa. Presi in mano la corona del santo rosario e mi rivolsi alla Madonna della Guardia, che è la Madonna dei genovesi, e dissi: — Vergine Santissima, voi che siete la Madre della Divina Provvidenza, voi che siete la Guardiana, la Celeste Guardiana di Genova e dei poveri del Piccolo Cottolengo — i poveri sono la pupilla degli occhi di Dio e sono il tesoro della Chiesa di Gesù Cristo —‘ io non salirò certi scalini e non batterò certe porte, se non sentirò proprio che quella è la volontà di Dio… Dovendo camminare nell’umiltà, chiedo a voi, che siete la Madre di Gesù, di tutti gli umili, di tutti i poveri, che mi facciate sentire la volontà vostra e senza chiasso — perché lo spirito del Cottolengo non è spirito di chiasso — ci doniate una Casa, una Casa che possa bastare ai nostri poveri. Ed ecco, erano passati solo pochi giorni, che ricevetti una lettera del primo cittadino di Genova, del podestà di Genova, che ci chiedeva di venire via da Quarto un po’ prima, che il Municipio ci avrebbe dato una Casa a Portoria… Allora sentii che la Madonna, dall’alto del Monte Figogna, aveva già mandato un soffio al cuore delle anime buone ed aveva già disposto che trovassimo una Casa. Ed ecco che ci hanno dato una Casa di Divina Provvidenza senza pagare neppure un soldo di affitto; la Casa è stata ora ristabilita, così che lo stesso veneratissimo Arcivescovo, che era venuto prima, non la riconosceva più…».
Dal libro: Le mani della Provvidenza